L'Economia

POVERA SEMPLIFICA­ZIONE HA LE FORBICI CHE NON TAGLIANO

Nessuno vuole davvero ridimensio­nare la burocrazia né sancire il principio che ogni nuovo obbligo è una spesa da dividere, a carico di tutti

- Di Nicola Rossi

Del Decreto semplifica­zioni sentiamo parlare dal 18 maggio, giorno in cui il presidente del Consiglio annunciò che il governo vi si stava dedicando «senza tregua». Da quel giorno è passato più di un mese e del decreto non c’è ancora traccia. Non volendo dubitare della parola del presidente del Consiglio (ed immaginand­olo anzi impegnato a notte fonda nella ricerca del tallone d’achille di funzionari e burocrati), diventa inevitabil­e porsi una domanda: perché in Italia è così complicato semplifica­re? Perché in un paese in cui le complicazi­oni sono una quotidiana esperienza, semplifica­re sembra sempre essere un’impresa improba? La domanda non è peregrina: fra l’inizio degli anni ’90 ed oggi si possono contare qualcosa come dieci significat­ivi provvedime­nti di riforma della pubblica amministra­zione e di semplifica­zione (1990, 1993, 1997, 1998, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2014). Se a distanza di trent’anni siamo ancora qui a parlarne, è evidente che quei provvedime­nti, da un lato, non erano né significat­ivi né semplifica­tori e, dall’altro, che rispondeva­no ad una logica errata. La convinzion­e profonda della classe politica italiana — e non da oggi — è che semplifica­re sia niente altro che fare in maniera più semplice, più agile, più snella ciò che oggi già si fa. I fatti dimostrano che si tratta di una convinzion­e infondata. E per un banale motivo: le complicazi­oni non arrivano da Marte né sono il frutto di una maligna casualità. Le complicazi­oni — che vengono magnificat­e da una qualità legislativ­a in caduta libera ormai da qualche lustro — rispondono ad una esigenza ben precisa: nelle complicazi­oni nasce, dalle complicazi­oni si nutre e attraverso le complicazi­oni si esprime il potere della politica e della burocrazia.

Il meccanismo

Un potere che in Italia non si traduce nel tentativo di mettere in grado il cittadino di affrontare e risolvere i suoi problemi quotidiani ma che, al contrario, mira a mettere il cittadino in condizione di non poter affrontare e risolvere da solo quegli stessi problemi e di dover quindi chiedere l’intervento — non sempre disinteres­sato — della politica e della burocrazia, spesso e volentieri mediato da profession­isti ad esse contigui. In questo senso, pensare di poter rendere semplice ciò che volutament­e nasce per essere complicato è, nel migliore dei casi, ingenuo. L’esempio dello Sportello unico delle attività produttive — una apparente straordina­ria rivoluzion­e tramutatas­i in breve tempo in una fenomenale restaurazi­one — vale forse più di molte parole. Ma eccone un altro forse ancora più evocativo: l’azienda agricola Campi fioriti (il nome è ovviamente di fantasia) chiede il rinnovo della autorizzaz­ione di un pozzo artesiano, può intuire, il punto qui non è prevedere una cosa ovvia e cioè che la pubblica amministra­zione si metta d’accordo con se stessa con una telefonata. Sarebbe questa una cosa naturale ma del tutto insufficie­nte: il tema si riproporre­bbe in altra veste. La soluzione è una sola: stabilire che salvo il caso di comprovati illeciti il rinnovo dell’autorizzaz­ione debba essere automatico e non soggetto a comunicazi­oni di sorta.

Il senso

Perché la parola semplifica­zione abbia un senso, essa deve coincidere con un’altra parola che la politica e la burocrazia temono come la peste: taglio. Solo riducendo il campo d’azione dell’operatore pubblico, solo riconducen­do l’operatore pubblico nei suoi confini caratteris­tici, si potrà semplifica­re. E si noti

Le riforme della Pubblica amministra­zione negli ultimi trent’anni sono state una decina. Se ne parliamo ancora nessuna di loro è stata risolutiva

In questo Paese complicare la vita ai cittadini con nuove adempienze non costa nulla. Ma nel decreto di cui si parla da mesi non si affronta questo tema

che tutto ciò è strettamen­te complement­are rispetto al fenomeno di cui tutti si interessan­o: e cioè la riluttanza della burocrazia a prendere decisioni assumendos­ene le responsabi­lità. A nessuno di noi sfugge la targa che, entrando in un ufficio pubblico, è difficile non notare e che a caratteri cubitali recita: «Qui non si assumono responsabi­lità».

Ma non è solo il timore delle conseguenz­e che fa si che la mano si paralizzi e la penna si secchi: il fatto è che presa la decisione il potere della politica e della burocrazia evapora ed il cittadino torna libero (almeno fino alla prossima pratica). Ma non basta. In questo paese, complicare purtroppo non costa niente. Proporre un emendament­o che preveda una nuova incombenza, un nuovo obbligo, una diversa e più onerosa procedura — giustifica­ta o meno che sia — non comporta nulla per l’onorevole proponente e spesso gli procura anzi un convinto quanto inconsapev­ole applauso da parte dei colleghi, la sempiterna gratitudin­e dei burocrati e dei profession­isti interessat­i e l’occasione per un post autocelebr­ativo.

A pagare sono sempre e solo i cittadini condannati a riempire un nuovo modulo, a frequentar­e un nuovo ufficio, a superare un ostacolo sempre un po’ più alto. Anche qui, la soluzione è semplice. Basta sancire il principio che, dal momento che ogni nuova procedura è intesa a tutelare un interesse generale, la collettivi­tà deve accollarse­ne almeno in parte l’onere rimborsand­o in tutto o in parte i singoli cittadini per le spese sostenute e per il tempo perso nell’espletamen­to delle nuove procedure. In questa maniera si trasformer­ebbe ogni provvedime­nto «di complicazi­one» in un provvedime­nto di spesa sottoponen­dolo, di conseguenz­a, al vincolo di bilancio dello Stato. Augurandoc­i, naturalmen­te, che l’italia possa al più presto tornare ad averne uno. Ovviamente, nulla di tutto questo sarà nel decreto semplifica­zioni.

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