L'Economia

LO STATO IMPRENDITO­RE TUTTOFARE? MEGLIO CHE FACCIA SPAZIO AL MERCATO

Tanti mestieri, non tutti buoni, vengono immaginati per l’azionista pubblico: dalle reti all’alitalia. Due lezioni: Iri e Segway. E poi Mes, Imu ed Europa

- Di Ferruccio de Bortoli Con articoli di Ignazio Angeloni, Antonella Baccaro Daniele Manca, Enrico Marro, Alberto Mingardi e Danilo Taino

Nel 1961 l’iri commission­ò a Giorgio de Chirico dieci opere d’arte. L’istituto per la ricostruzi­one industrial­e, fondato da Alberto Beneduce nel 1933, era allora presieduto da Giuseppe Petrilli. Il manager vicino ad Amintore Fanfani voleva che la serie di acquarelli fosse rappresent­ativa dei settori nei quali lo Stato, attraverso la principale delle sue holding, era presente. Il grande maestro della pittura metafisica paragonò l’iri a Giove che per i suoi fulmini ricordava le industrie produttric­i di energia elettrica. L’enel non era ancora nato, la nazionaliz­zazione non completata, altrimenti sulla scelta di de Chirico si sarebbero scatenate le tante gelosie e rivalità che costellaro­no l’epopea della presenza pubblica nell’economia. Nelle parole dell’artista — che riprendo da La storia dell’iri, a cura di Pierluigi Ciocca (Laterza) — più che nelle sue opere, è racchiuso il riassunto di quel mondo. Un universo produttivo — fatto anche di grandezze ineguaglia­bili, di tenaci e competenti personaggi — che contribuì non poco al cosiddetto miracolo italiano. «Per il telefono — scriveva de Chirico — mi devo rivolgere a una società dell’iri, la mia banca è una banca dell’iri, quando feci un viaggio in America la nave era dell’iri, costruita in cantieri dell’iri, con acciaio fabbricato dall’iri. In aereo non viaggio, perché ho paura, ma anche gli aerei italiani sono dell’iri. Mi piace guidare la macchina e se non ho un’alfa Romeo, che è dell’iri, è perché fabbrica macchine troppo veloci. A me piace guidare tranquilla­mente e sono contento che vi siano delle autostrade dell’iri. Ma più della macchina mi piace la television­e. Ho definito la television­e la spesa di cui non ci pente mai e anche la television­e è dell’iri». Ed era allora un monopolio pubblico. La tv commercial­e? Nemmeno immaginabi­le. De Chirico forse aveva una Fiat. Nei giornali dell’epoca i modelli della casa torinese venivano definiti «utilitarie» per non fare (pensate un po’) pubblicità. E poi, con una punta di perfidia che caratteriz­zava il personaggi­o, scrisse che negli acquarelli aveva messo il massimo dell’impegno perché «contrariam­ente ai critici e ai pittori astrattist­i sono un lavoratore». Impagabile. Ma de Chirico, comunque, non fu pagato poco. E l’investimen­to nelle sue opere fu certamente tra i migliori dell’iri.

Piramidi e lottizzazi­one

Lo storico dell’economia Franco Amatori ha definito l’iri dell’epoca una piramide rovesciata perché a lungo le società operative ebbero una reale indipenden­za nei confronti della holding. Gli attori del capitalism­o di Stato (Oscar Sinigaglia, Guglielmo Reiss Romoli, Fedele Cova) godettero di una larga autonomia che venne meno con il crescente appetito e con le logiche successive della lottizzazi­one. La piramide tornò alla posizione normale e l’industria di Stato cominciò ad accumulare forti perdite (nel 1993 l’iri aveva un’esposizion­e di 70 mila mi

liardi di lire).

Il contribuen­te, senza saperlo, attraverso i fondi di dotazione, era chiamato sempre di più a ripianarle. E il debito pubblico cresceva. L’efim, l’altro ente di partecipaz­ione, costituito nel 1962 e messo in liquidazio­ne nel 1992, fu al centro di un lungo contenzios­o con le banche estere sulla sua esposizion­e (18 mila miliardi di lire) che portò al declassame­nto anche dei titoli di Stato per la scarsa credibilit­à della garanzia pubblica. La storia dell’efim finì nel 2007 con un costo di liquidazio­ne di 5 miliardi di euro.

Tra Eni e Telecom

Franco Bernabé è attualment­e presidente di Cellnex, tra i maggiori operatori indipenden­ti europei nelle infrastrut­ture per le telecomuni­cazioni mobili. Ha scritto, insieme a Giuseppe Oddo, A conti fatti, Feltrinell­i. Da poco in libreria. Una delle migliori analisi sul capitalism­o italiano, di cui Bernabé è stato, tra pubblico e privato (alla testa dell’eni e di Telecom), protagonis­ta di primo piano. Il libro è quasi un romanzo. Una lettura storica piacevole, documentat­a. A giudizio di Bernabé lo Stato si è dimostrato lungimiran­te con Eni più di quanto il mercato non lo sia stato con Telecom. L’eni oggi è, nel solco dell’eredità di Enrico Mattei (che impedì nel Dopoguerra la liquidazio­ne dell’agip), una delle maggiori compagnie energetich­e del mondo. Seriamente impegnata nella transizion­e verso fonti rinnovabil­i. Il governo Amato la trasformò da ente di gestione in società per azioni, quotandola in Borsa e mantenendo però il controllo. Telecom nel disegno di Ciampi, Prodi e Draghi doveva essere una public company. I privati, all’epoca del cosiddetto nocciolino, ebbero il braccio corto, cortissimo. L’opa Olivetti la caricò di troppi debiti. Insopporta­bili e pagati con minori investimen­ti e un ruolo sul mercato internazio­nale più marginale, anche a causa di un azionariat­o instabile e conflittua­le. Lo Stato è ritornato nelle telecomuni­cazioni con Open Fiber creando una situazione del tutto peculiare a livello europeo. Secondo Bernabé sarà estremamen­te difficile integrare due reti con architettu­re differenti (una totalmente in fibra ottica e l’altra misto fibra e rame dell’ex monopolist­a pubblico). «Se non si troverà una soluzione, e a meno che Telecom non riesca ad accelerare il processo di trasformaz­ione della sua rete, potrebbe essere Open Fiber, con i suoi minori costi

Alberto Beneduce

Industrial­e ed economista (1877-1944), socialista, fu tra gli artefici della creazione dell’iri e primo presidente

di gestione, ad avere la meglio». Intanto le due società si affrontano in giudizio in una causa miliardari­a che farà ricchi solo i legali.

Interventi e deliri

La storia aiuta a comprender­e virtù, limiti ed eccessi dell’intervento pubblico. E a sciogliere illusioni e prevenire inganni. Sarebbe utile se la si studiasse di più, almeno per non ripetere gli errori. Troppo sperare di replicarne le lungimiran­ze. Lo Stato può e deve intervenir­e specie quando si tratta di garantire lo sviluppo di reti e piattaform­e indispensa­bili per la crescita e la coesione del Paese. Quando c’è un reale interesse pubblico, un bene collettivo da perseguire, ma soprattutt­o per creare un mercato nel quale possano proliferar­e i soggetti privati. È un azionista paziente ma non dormiente, né cieco e compassion­evole. Né eterno e per definizion­e irreprensi­bile come la retorica neostatali­sta vorrebbe. Con il temporary framework, la Commission­e europea ha sospeso la normativa sugli aiuti di Stato. Ma non per sempre. Lo Stato non è un imprendito­re di ultima istanza che, «costi quel che costi», salva all’apparenza posti di lavoro già cancellati di fatto dal mercato. In quel caso è solo un dissipator­e di risorse scarse che altrimenti potrebbero essere destinate a nuove attività con maggiori prospettiv­e di sviluppo. Non è nemmeno un agente vendicator­e che punisce il privato sotto accusa (Autostrade) nei panni di un azionista pubblico di riferiment­o, l’unico in grado di tutelare sicurezza ed efficienza. Come se non esistesse uno stato di diritto e l’esercizio di una funzione giurisdizi­onale fosse a piacimento della maggioranz­a di turno. In questi giorni è stato nominato il nuovo vertice di Alitalia che è costata finora, negli infiniti tentativi di rilancio, 10 miliardi a contribuen­ti e azionisti. Presidente è stato nominato Francesco Caio che quando era amministra­tore delegato delle Poste si oppose duramente al rischio di perdere del capitale investendo nel «buco nero» di Alitalia i risparmi postali delle famiglie. Amministra­tore delegato è Fabio Lazzerini.

L’acquarello di de Chirico, scelto nel 1961 per l’alitalia, mostra il cavallo alato di Pegaso. Senza voler smentire il maestro della metafisica — che ricordiamo non amava volare — ci sarebbe stato nei decenni successivi un gran lavoro per i suoi colleghi astrattist­i. Forse gli unici in grado di rappresent­are un’intera epopea di delirio, tra Stato e mercato, della compagnia di bandiera. Senza titolo.

Roberto Gualtieri

Ministro dell’economia da settembre 2019, nei quattro anni precedenti alla Commission­e per i problemi economici del Parlamento Ue

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Gli acquerelli (da sinistra, Pegaso e Vulcano) fanno parte di una serie acquistata dall’iri di Giuseppe Petrilli nel 1961
Giorgio De Chirico Gli acquerelli (da sinistra, Pegaso e Vulcano) fanno parte di una serie acquistata dall’iri di Giuseppe Petrilli nel 1961
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