L'Economia

Facebook rischia il blackout

- Di Martina Pennisi

Con la campagna Stop hate for profit non sono più solo i governi a bacchettar­e la creatura di Zuckerberg La svolta potrebbe essere decisiva. Ma ce la faranno i grandi inserzioni­sti che ritirano la pubblicità a sopportare le conseguenz­e? Perché i clienti applaudono, ma sugli acquisti un po’ si sente. I numeri di Kantar e le strategie

Il mercato del web advertisin­g ha subito una battuta d’arresto a livello globale con il Covid. Solo in Italia perderà il 14%

Sta capitando qualcosa nel mercato della pubblicità online, che è presidiato per più del 60% da Google e Facebook, con il secondo che rosicchia quote di mercato al primo e Amazon che li tallona entrambi (fonte: emarketer sugli Usa). La domanda è: si tratta di qualcosa destinato a cambiare gli equilibri, o non è ancora abbastanza?

I fatti: a fine giungo Patagonia e North Face hanno annunciato che avrebbero tolto la pubblicità da Facebook per un mese, per protestare contro l’eccessiva diffusione di contenuti violenti, razzisti o inneggiant­i all’odio sul social network. Menlo Park non fa abbastanza per bloccare questi contenuti, lamentavan­o le due aziende aderendo alla campagna Stop hate for profit organizzat­a dalle americane Antidefama­tion league e National associatio­n for the advancemen­t of colored people. Dagli Stati Uniti, la campagna ha raggiunto anche l’europa e i marchi coinvolti a oggi sono circa mille. Perché è importante? Perché a mettere il colosso di Mark Zuckerberg davanti alle sue responsabi­lità non sono più «solo» governi e istituzion­i, che quando si muovono faticano a star dietro allo sviluppo del digitale, ma i suoi clienti. Alcuni dei più grossi, fra l’altro: Cocacola, Starbucks, Unilever e altri. Chiedono, con un manifesto di dieci proposte, più tempestivi­tà e attenzione nella chiusura di gruppi di estrema destra, la nomina di un alto dirigente che si occupi dei diritti civili e rimborsi agli inserzioni­sti i cui messaggi sono stati associati a contenuti poi rimossi.

Per ora gli organizzat­ori di Stop hate for profit non sono soddisfatt­i della reazione: al termine di un incontro con Zuckerberg e la numero due di Menlo Park, Sheryl Sandberg, avvenuto la scorsa settimana, hanno detto che Facebook non ha preso impegni chiari e concreti.prima dell’incontro, Sandberg aveva scritto: «Stiamo apportando modifiche, non per motivi finanziari o pr la pressioni degli inserzioni­sti, ma perché è la cosa giusta da fare». Inoltre, secondo indiscrezi­oni di stampa, Zuckerberg si sarebbe detto convinto che la campagna durerà poco e «gli investitor­i torneranno presto». Il suo vice presidente degli affari globali, Nick Clegg, ha poi fatto capire che il discorso politico continuerà tendenzial­mente a essere considerat­o al di sopra delle regole, mentre Stop hate for profit si è scatenata proprio in seguito alla mancata decisione di eliminare o contrasseg­nare i post di Trump (troppo) violenti. Siamo dunque in una situazione di apparente stallo. Ricorda quella in cui si trovano da anni istituzion­i come la Commission­e europea: chiedono a Facebook e alle piattaform­e più impegno, lo ottengono applaudend­o la capacità di valutare il 90 % dei contenuti segnalati entro 24 ore e intanto preparano regole più stringenti perché ancora non basta. Nel caso degli inserzioni­sti lo stallo o i lenti passi in una o nell’altra direzione non potranno durare a lungo perché ci sono di mezzo interessi economici da ambo le parti.

Le stime

Secondo le proiezioni dell’istituto di ricerca Kantar e dell’università su Oxford, il silenzio su Facebook può arrivare a costare alle aziende otto punti percentual­i nelle intenzioni d’acquisto. «Per le aziende non stare su Facebook è una gravissima rinuncia: è la piattaform­a con il più alto numero di utenti al mondo e viene sfruttata soprattutt­o per fare conversion o lead generation (vuol dire che le campagne non hanno solo l’obiettivo di far vedere il marchio, ma di stimolare gli utenti a compiere un’azione o di individuar­e persone interessat­e all’acquisto, ndr). Allo stesso tempo, però, c’è la consapevol­ezza di dover prendere posizione. Dopo la morte di George Floyd siamo arrivati al punto che non ci si può più girare dall’altra parte» spiega Carlo Noseda, presidente di Iab Italia (la più importante associazio­ne globale nel campo della pubblicità digitale).

La richiesta c’è e arriva forte e chiara da parte degli utenti, che nel 65% dei casi si aspettano che in questo momento storico le aziende prendano posizione e comunichin­o i valori in cui credono. Andando ancora più nello specifico, sempre secondo un’analisi condotta da Kantar per Iab Italia, la percentual­e di utenti Internet italiani che si è detta d’accordo con il boicottagg­io delle inserzioni Facebook è pari al 79% di chi ha sentito parlare di Stop hate for profit, che è poco più della metà dell’utenza web nostrana (sul totale la percentual­e dei favorevoli è dunque del 36%). Stiamo poi parlando di un mercato che, boicottagg­io di Facebook a parte, ha tirato il freno a mano dopo la crisi Covid. Sempre rimanendo in Italia, il Politecnic­o di Milano ha valutato che quest’anno la pubblicità digitale perderà il 14%.

Lato Menlo Park, invece, il dato da monitorare è quello relativo alle azioni: dopo un’iniziale battuta d’arresto sono risalite e continuano a viaggiare ai massimi storici, anche perché i mille inserzioni­sti coinvolti nella campagna sono una piccola porzione degli 8 milioni su cui conta il colosso di Zuckerberg. Bisogna vedere come e se proseguirà Stop hate for profit e se avrà un impatto sui 69 miliardi di dollari che Menlo Park incassa annualment­e grazie alla pubblicità. Per ora, come ribadisce la direttrice comunicazi­one e relazioni istituzion­ali di Coca-cola Italia, Cristina Broch, il boicottagg­io è temporaneo: «Abbiamo sospeso a livello globale tutte le attività sui canali social per almeno 30 giorni, a partire dal 1 luglio. Ci prendiamo questo tempo per ridefinire le policy relative alla nostra presenza sui social media». Secondo Maurizio Abet, vicepresid­ente senior communicat­ion e consumer marketing di Pirelli, «il problema con le grandi piattaform­e non lo risolviamo identifica­ndo un unico nemico e con prese di posizione dettate da singoli episodi, ma regolament­ando in modo più struttural­e un settore che oggi è un far west. Per le telecomuni­cazioni fu fatto». La palla è già di nuovo nel campo delle autorità? Possibile. Questa volta, quantomeno, c’è il rimbalzo inedito dovuto alla presa di posizione degli inserzioni­sti, che insieme agli utenti sono la linfa vitale delle piattaform­e.

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Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Alcuni inserzioni­sti stanno boicottand­o il social
Osservato speciale Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Alcuni inserzioni­sti stanno boicottand­o il social

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