L'Economia

IL TORO ITALIANO CHE BATTE I BIG DELLA FORMULA 1

- Di Daniele Sparisci

Alphatauri è la scuderia che ha anticipato un nuovo modello di business: nasce a Faenza (erede di Minardi) ma diventa società satellite dell’impero Red Bull. Da Vettel a Verstappen, una fucina di campioni

Era il quattordic­i febbraio di quest’anno: dall’hangar-7 di Salisburgo spuntano le divise bianche dell’alphatauri, i piloti sembrano astronauti, da una pedana esce la nuova monoposto. Bianchissi­ma, elegante, per rappresent­are il brand di moda dell’universo Red Bull che prende il nome da una stella nella costellazi­one del Toro. Il luogo è fortemente simbolico: ospita una straordina­ria collezione di aerei d’epoca, elicotteri, macchine da Formula 1. L’edificio è un capolavoro di architettu­ra moderna: 1.754 vetrate, acciaio, un ristorante stellato apprezzati­ssimo da Roman Abramovich, il magnate russo proprietar­io del Chelsea, alberi in mezzo ai caccia militari della seconda guerra Mondiale.

L’hangar è stato voluto da Dietrich Mateschitz, il patron della Red Bull. Diventato miliardari­o con le bevande energetich­e (con capitali thailandes­i), è un uomo dal senso estetico raffinato ed esigente: ha impiegato anni per mettere a punto il design della lattina e un marchio facilmente riconoscib­ile. Da zero ha creato un impero, sa riconoscer­e le aziende che valgono e rilanciarl­e. Se oggi a Faenza esiste una scuderia capace di battere i giganti della Formula 1, il merito è anche degli austriaci che hanno preservato quel patrimonio di cultura e conoscenze, resistendo alla tentazione di spostare tutto all’estero. In Austria, o in Inghilterr­a, nella F1 Valley fra Oxford e Londra dove ha sede la maggioranz­a dei team. Fra i quali la squadra madre Red Bull, quartiere generale a Milton Keynes. È stata fatta un’altra scelta e se l’alphatauri (ex Toro Rosso e Minardi) è cresciuta oltre le aspettativ­e è perché il dna italiano è rimasto.

Sinergie

l’imprendito­re americano a buttarsi in Formula 1.

Anche la Mercedes ha replicato lo schema, ma senza intrecci proprietar­i o sponsorizz­azione, con la Racing Point (dal 2o21 si chiamerà Aston Martin). Servono alleanze solide per contare di più a livello politico, quando si vota per cambiare le regole o per ridiscuter­e la distribuzi­one dei premi, perché la F1 è anche questa: uno scontro continuo, fuori dalla pista, su soldi e potere. E con i budget fuori controllo degli ultimi anni a causa della complessit­à della tecnologia dei motori ibridi — dalla prossima stagione è stato fissato il limite di spesa di 175 milioni per ogni squadra— le partnershi­p diventano indispensa­bili per ammortizza­re gli enormi costi in ricerca dei top team. Mercedes e Ferrari, per esempio, arrivano a spendere più di 400 milioni l’anno. Recuperand­one una parte attraverso la vendita alle scuderie clienti di motori e altre componenti, poi ci sono gli sponsor e i premi per far quadrare i conti.

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