IL CAPITALISMO ASSEDIATO TUTTI FERMI, CI PENSA LO STATO
Ne usciremo migliori? Mettere sotto controllo la pandemia è essenziale per ripristinare quel minimo di certezza senza la quale non può riattivarsi il circuito degli scambi e, dunque, l’economia. Ma se gli esperti suggeriscono che il coronavirus starà con noi almeno per un altro anno, le strategie di contrasto messe in campo da governi e banche centrali possono avere conseguenze rilevanti su tempi molto più lunghi.
Il dibattito, in Italia e non solo, sembra pensare che la partita del futuro si giochi sul modo in cui saranno impiegati i fondi del Recovery Fund. «Il 20% di Next Generation Europe — ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen — dovrà essere destinato al digitale». Secondo la classe politica, è così che si fa «innovazione»: banda larga, Internet delle cose, 5G sono diventate parole d’ordine quasi scontate, in qualsiasi discorso ufficiale. Per quanto sia probabile che tutte queste cose ci cambino effettivamente la vita, e più in generale che una migliore connettività abbassi i costi delle transazioni e, dunque, renda più facile per le persone scambiare i beni e servizi che desiderano, è miope considerare l’innovazione qualcosa che riguarda alcune specifiche applicazioni e merci. Anche perché, ex ante, è difficilissimo stimare l’impatto di ciascuna di esse: quando, nel 1994, un brillantissimo trentenne mollava l’hedge fund di cui era diventato vicepresidente per aprire una libreria on line, nessuno poteva immaginare che stava rivoluzionando il nostro modo di comprare tutto, non solo dei libri. È improbabile che alla Samsung chi ha inventato e realizzato il primo telefono con macchina fotografica, nel 2000, sapesse di stare piantando il seme della civiltà di Instagram e che ciò avrebbe portato non solo a una sorta di egomania di massa, ma anche a una autentica rivoluzione del modo nel quale si pubblicizzano tutta una serie di prodotti.
Fra dieci anni, il tasso di innovazione della nostra economia non dipenderà da tutte le cose tecnologicamente affascinanti che finanziamo oggi: ma dal fatto che essa sia o meno un’economia dinamica, nella quale le nuove idee riescono a trovare chi è disponibile a realizzarle e sottoporle così alla prova del mercato.
Da questo punto di vista, più del digitale dovrebbe preoccuparci il fatto che rischiamo di uscire dalla crisi con un capitalismo molto più ingessato di prima, nel quale è sempre più difficile mettere in discussione gli assetti proprietari. Il Covid-19, anche in questo caso, ha solo esacerbato fenomeni precedenti.
Il quadro
A dispetto di tutta la retorica sul neoliberismo, da anni il mercato dei diritti di proprietà vede un numero assai limitato di takeover ostili e battaglie societarie. I manager di un’azienda, ovviamente, non amano che essa sia contendibile: un’opa rappresenta un’accusa esplicita al modo in cui essi l’hanno gestita. I governi tendono ad assecondarli. Da una parte, i grandi manager spesso trovano udienza presso i leader politici: questo è difficile che avvenga invece per tutti i loro azionisti, che in alcuni casi sono istituzioni finanziarie di altri Paesi, fondi pensione o individui con una pluralità di interessi e raramente si identificano come azionisti di quell’impresa. Dall’altra, quando un’azienda passa di mano è perché il nuovo azionista di controllo pensa di poterla gestire meglio del precedente. Questo significa fare efficienza e, spesso, ridurre o cambiare il personale: cosa che, comprensibilmente, il politico vorrebbe non accadesse mai, dal momento che la disoccupazione annuncia grandi o piccoli smottamenti sociali. Il governo Conte ha ampliato l’ambito di applicazione della golden power. L’obiettivo dichiarato è proteggere le aziende da acquirenti stranieri, l’effetto è tutelarne i gestori pro tempore. Lo stesso hanno fatto altri Paesi, anche se non tutti hanno usato i medesimi strumenti. Nel primo trimestre di quest’anno, fusioni e acquisizioni hanno raggiunto globalmente i livelli più bassi dal 2014. Il volume complessivo è un quarto dell’anno precedente. Sicuramente pesa l’incertezza generale, ma gli ostacoli politici non aiutano. Non è privo di interesse il fatto che, secondo Georgeson, il 44% delle quotate italiane abbia ridotto i dividendi, nella crisi Corona, ma solo il 29% abbia ridotto lo stipendio dei loro dirigenti. Qualcosa di simile è avvenuto in Spagna e Danimarca, mentre in Inghilterra, Francia, Germania, Olanda e Svizzera è più probabile che chi ha ridotto le cedole abbia tagliato anche la propria remunerazione.
In un anno così particolare, nel quale l’andamento di un’azienda non dipende soltanto dalle scelte di chi la gestisce, è comprensibile che non si voglia penalizzare un amministratore delegato che ha fatto e sta facendo bene. Però la nostra tende a essere una cultura che mette gli azionisti all’ultimo posto. In Italia sono sempre di meno le grandi imprese nelle quali non sia previsto un qualche intervento della Cassa depositi e prestiti. Per quanto la Cassa debba fare «operazioni di mercato», i politici ne auspicano il coinvolgimento in tutte le operazioni possibili. Deve ancora nascere un’impresa che non sia «strategica» per il ministro Patuanelli. In parte entra in gioco la retorica della «protezione» nazionalista, in parte l’ideologia dello Stato imprenditore, che sa prevedere e indirizzare lo sviluppo. Ma a chi si affida, lo Stato imprenditore, per capire che cosa fanno le diverse aziende in cui si intrufola? Ai
Fra dieci anni l’eventuale progresso del sistema non dipenderà dal 5G, dal digitale o dall’internet delle cose, ma dal fatto che l’economia sia dinamica, con idee realizzate e poi sottoposte alla prova del mercato Oggi, però, ci si limita a coinvolgere la Cassa depositi in tutti i progetti col rischio di cancellare le sane responsabilità della concorrenza
I veri conservatori alla fine sono i riformatori che vogliono mettere il soggetto pubblico a far da arbitro nelle aziende private, assicurando un azionariato stabile e azzerando la voglia di fare impresa e profitti
manager attuali, e a chi se no? Per paradosso, i riformatori del capitalismo sono i veri conservatori. Hanno già liberato i manager dal pericolo di nuovi azionisti, specie stranieri, che possano decidere di cambiare governance e amministratori. Con la retorica del capitalismo «paziente» e «sostenibile», li emanciperanno dall’ansia delle trimestrali. Assicurando loro un azionariato stabile, nel quale il pubblico fa da arbitro delle controversie, essi potranno finalmente smettere di pensare ai profitti e concentrarsi su immaginifici progetti Paese. Sarà un capitalismo più opaco e ingessato, ma imbattibile nella produzione di buone intenzioni.