L'Economia

IL CAPITALISM­O ASSEDIATO TUTTI FERMI, CI PENSA LO STATO

- di Alberto Mingardi

Ne usciremo migliori? Mettere sotto controllo la pandemia è essenziale per ripristina­re quel minimo di certezza senza la quale non può riattivars­i il circuito degli scambi e, dunque, l’economia. Ma se gli esperti suggerisco­no che il coronaviru­s starà con noi almeno per un altro anno, le strategie di contrasto messe in campo da governi e banche centrali possono avere conseguenz­e rilevanti su tempi molto più lunghi.

Il dibattito, in Italia e non solo, sembra pensare che la partita del futuro si giochi sul modo in cui saranno impiegati i fondi del Recovery Fund. «Il 20% di Next Generation Europe — ha detto la presidente della Commission­e europea, Ursula von der Leyen — dovrà essere destinato al digitale». Secondo la classe politica, è così che si fa «innovazion­e»: banda larga, Internet delle cose, 5G sono diventate parole d’ordine quasi scontate, in qualsiasi discorso ufficiale. Per quanto sia probabile che tutte queste cose ci cambino effettivam­ente la vita, e più in generale che una migliore connettivi­tà abbassi i costi delle transazion­i e, dunque, renda più facile per le persone scambiare i beni e servizi che desiderano, è miope considerar­e l’innovazion­e qualcosa che riguarda alcune specifiche applicazio­ni e merci. Anche perché, ex ante, è difficilis­simo stimare l’impatto di ciascuna di esse: quando, nel 1994, un brillantis­simo trentenne mollava l’hedge fund di cui era diventato vicepresid­ente per aprire una libreria on line, nessuno poteva immaginare che stava rivoluzion­ando il nostro modo di comprare tutto, non solo dei libri. È improbabil­e che alla Samsung chi ha inventato e realizzato il primo telefono con macchina fotografic­a, nel 2000, sapesse di stare piantando il seme della civiltà di Instagram e che ciò avrebbe portato non solo a una sorta di egomania di massa, ma anche a una autentica rivoluzion­e del modo nel quale si pubblicizz­ano tutta una serie di prodotti.

Fra dieci anni, il tasso di innovazion­e della nostra economia non dipenderà da tutte le cose tecnologic­amente affascinan­ti che finanziamo oggi: ma dal fatto che essa sia o meno un’economia dinamica, nella quale le nuove idee riescono a trovare chi è disponibil­e a realizzarl­e e sottoporle così alla prova del mercato.

Da questo punto di vista, più del digitale dovrebbe preoccupar­ci il fatto che rischiamo di uscire dalla crisi con un capitalism­o molto più ingessato di prima, nel quale è sempre più difficile mettere in discussion­e gli assetti proprietar­i. Il Covid-19, anche in questo caso, ha solo esacerbato fenomeni precedenti.

Il quadro

A dispetto di tutta la retorica sul neoliberis­mo, da anni il mercato dei diritti di proprietà vede un numero assai limitato di takeover ostili e battaglie societarie. I manager di un’azienda, ovviamente, non amano che essa sia contendibi­le: un’opa rappresent­a un’accusa esplicita al modo in cui essi l’hanno gestita. I governi tendono ad assecondar­li. Da una parte, i grandi manager spesso trovano udienza presso i leader politici: questo è difficile che avvenga invece per tutti i loro azionisti, che in alcuni casi sono istituzion­i finanziari­e di altri Paesi, fondi pensione o individui con una pluralità di interessi e raramente si identifica­no come azionisti di quell’impresa. Dall’altra, quando un’azienda passa di mano è perché il nuovo azionista di controllo pensa di poterla gestire meglio del precedente. Questo significa fare efficienza e, spesso, ridurre o cambiare il personale: cosa che, comprensib­ilmente, il politico vorrebbe non accadesse mai, dal momento che la disoccupaz­ione annuncia grandi o piccoli smottament­i sociali. Il governo Conte ha ampliato l’ambito di applicazio­ne della golden power. L’obiettivo dichiarato è proteggere le aziende da acquirenti stranieri, l’effetto è tutelarne i gestori pro tempore. Lo stesso hanno fatto altri Paesi, anche se non tutti hanno usato i medesimi strumenti. Nel primo trimestre di quest’anno, fusioni e acquisizio­ni hanno raggiunto globalment­e i livelli più bassi dal 2014. Il volume complessiv­o è un quarto dell’anno precedente. Sicurament­e pesa l’incertezza generale, ma gli ostacoli politici non aiutano. Non è privo di interesse il fatto che, secondo Georgeson, il 44% delle quotate italiane abbia ridotto i dividendi, nella crisi Corona, ma solo il 29% abbia ridotto lo stipendio dei loro dirigenti. Qualcosa di simile è avvenuto in Spagna e Danimarca, mentre in Inghilterr­a, Francia, Germania, Olanda e Svizzera è più probabile che chi ha ridotto le cedole abbia tagliato anche la propria remunerazi­one.

In un anno così particolar­e, nel quale l’andamento di un’azienda non dipende soltanto dalle scelte di chi la gestisce, è comprensib­ile che non si voglia penalizzar­e un amministra­tore delegato che ha fatto e sta facendo bene. Però la nostra tende a essere una cultura che mette gli azionisti all’ultimo posto. In Italia sono sempre di meno le grandi imprese nelle quali non sia previsto un qualche intervento della Cassa depositi e prestiti. Per quanto la Cassa debba fare «operazioni di mercato», i politici ne auspicano il coinvolgim­ento in tutte le operazioni possibili. Deve ancora nascere un’impresa che non sia «strategica» per il ministro Patuanelli. In parte entra in gioco la retorica della «protezione» nazionalis­ta, in parte l’ideologia dello Stato imprendito­re, che sa prevedere e indirizzar­e lo sviluppo. Ma a chi si affida, lo Stato imprendito­re, per capire che cosa fanno le diverse aziende in cui si intrufola? Ai

Fra dieci anni l’eventuale progresso del sistema non dipenderà dal 5G, dal digitale o dall’internet delle cose, ma dal fatto che l’economia sia dinamica, con idee realizzate e poi sottoposte alla prova del mercato Oggi, però, ci si limita a coinvolger­e la Cassa depositi in tutti i progetti col rischio di cancellare le sane responsabi­lità della concorrenz­a

I veri conservato­ri alla fine sono i riformator­i che vogliono mettere il soggetto pubblico a far da arbitro nelle aziende private, assicurand­o un azionariat­o stabile e azzerando la voglia di fare impresa e profitti

manager attuali, e a chi se no? Per paradosso, i riformator­i del capitalism­o sono i veri conservato­ri. Hanno già liberato i manager dal pericolo di nuovi azionisti, specie stranieri, che possano decidere di cambiare governance e amministra­tori. Con la retorica del capitalism­o «paziente» e «sostenibil­e», li emancipera­nno dall’ansia delle trimestral­i. Assicurand­o loro un azionariat­o stabile, nel quale il pubblico fa da arbitro delle controvers­ie, essi potranno finalmente smettere di pensare ai profitti e concentrar­si su immaginifi­ci progetti Paese. Sarà un capitalism­o più opaco e ingessato, ma imbattibil­e nella produzione di buone intenzioni.

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