Azioni, chi vince (e chi perde) se il clima migliora
Infrastrutture e titoli sostenibili da qui al 2050 possono guadagnare anche oltre il 100% se il surriscaldamento verrà contenuto. Le stime
Il cambiamento climatico è un rischio reale per i portafogli d’investimento e non deve essere sottovalutato. Le perdite cumulate in un orizzonte di lungo periodo potrebbero arrivare a superare anche il 50% in alcuni settori e Paesi. È il caso per esempio delle utility elettriche che, secondo un’analisi condotta da Axa Investment Managers, potrebbero scontare un impatto negativo sui rendimenti del 4,1% l’anno, ovvero il 42,1% cumulato fino al 2030 e il 65,7% fino al 2050. Ma ci sono anche asset class ben posizionate per trarre vantaggio da un mondo più «responsabile», come le rinnovabili (+6,2% l’impatto annuo stimato in termini di rendimento) e le infrastrutture (+2%). Uno scenario che rende necessario integrare gli obiettivi di sostenibilità nel proprio portafoglio di investimento, così da selezionare i potenziali vincitori e vinti.
Le cifre
«Oltre ai rischi fisici legati strettamente al cambiamento del clima, dal surriscaldamento globale derivano anche rischi più immediati per il passaggio del settore energetico dai combustibili fossili a fonti alternative low carbon – commenta Lise Moret, head of climate strategy di Axa Im –. I climatologi e l’intergovernmental Panel on Climate Change hanno quantificato la riduzione delle emissioni di carbonio necessaria per contenere l’innalzamento della temperatura a fine secolo entro +1,5°C rispetto all’era pre-industriale. L’accordo di Parigi prevede l’azzeramento delle emissioni globali annue nette di CO2 entro il 2050 e il loro dimezzamento entro il 2030. Ma l’entità degli sforzi non è uniforme nei diversi settori e Paesi», e questo potrebbe avere pesanti ripercussioni sui mercati sia azionari sia obbligazionari. Uno studio realizzato dalla società di consulenza Mercer (Investing in a time of Climate Change – the Sequel) ha mostrato che l’esito migliore dal punto di vista di un investitore a lungo termine potrebbe essere lo scenario di un riscaldamento globale contenuto entro i +2° C rispetto agli scenari di +3° C (attuale impegno dell’accordo di Parigi) e di +4° C (nessun cambiamento). Per fare un esempio, rispetto all’ipotesi di +2° C, uno scenario di +4° C farebbe perdere a un portafoglio di azioni dei mercati sviluppati il 5,6% cumulato da qui al 2050, mentre i portafogli diversificati subirebbero perdite superiori allo 0,10% l’anno fino al 2100 (un cumulato dell’8%). Il cambiamento climatico, però, non influisce in modo univoco su tutti i prodotti d’investimento. «Intervenendo sui portafogli è possibile integrare nell’asset allocation strategica l’obiettivo +1,5° C, con dimezzamento delle emissioni di carbonio entro il 2030, senza penalizzare i rendimenti corretti per il rischio», puntualizza Moret.
Per costruire un’asset allocation strategica in linea con l’obiettivo +1,5° C, «abbiamo sviluppato un approccio progressivo diviso in 4 fasi – argomenta Moret –. La prima prevede l’identificazione del portafoglio multi-asset di base costruito solo su strumenti quotati e composto per il 44% da azioni globali, per il 30% da obbligazioni societarie globali investment grade, per il 6% da obbligazioni high yield e per il 20% da obbligazioni governative; nella seconda fase andremo a ricalibrare le asset class in relazione all’intensità delle emissioni e all’impatto sul riscaldamento globale, mentre la terza prevede la definizione dell’asset allocation strategica in base a un obiettivo di de-carbonizzazione ottimizzato. L’ultima fase è stata pensata per affinare e calibrare la metodologia». In particolare, con riferimento alla seconda fase, l’obiettivo è allineare il portafoglio con l’obiettivo di +1,5° C stabilito con l’accordo di Parigi, «e per riuscirci andremo a mappare Paesi e settori sulla base delle attuali intensità di carbonio – continua ancora Moret –. Questo ci permetterà di suddividere gli asset tra quelli critici, caratterizzati da un’intensità di carbonio medio-alta, e quelli non critici, a bassa intensità». Fanno parte della prima categoria società coinvolte nella produzione di energia, elettricità e materie prime, ma anche società del settore immobiliare, dei trasporti e dei beni di consumo. I settori dei servizi alle imprese, della sanità, delle telecomunicazioni e dei servizi finanziari, invece, rientrano nella categoria a basso impatto climatico. «Grazie a una maggiore esposizione ad asset meno esposti al cambiamento climatico («non critici»), un’allocazione ottimizzata ci consentirà di dimezzare l’intensità di carbonio, offrendo al tempo stesso rendimenti maggiori», conclude Moret.