INTELLIGENZA ARTIFICIALE E HI-TECH, L’EUROPA PROVA A SFIDARE I COLOSSI USA E CINESI
I primi 5 colossi americani valgono dieci volte i big della Ue. E ora la mossa di Nvidia sulla britannica Arm riaccende la sfida per la supremazia tecnologica tra Usa e Cina Il Vecchio Continente si ritaglia un ruolo nella tutela di valori e principi, ma i veri business si fanno altrove...
La più grande società tecnologica europea è la tedesca Sap, che sviluppa software per le aziende: il suo valore in Borsa e il suo fatturato sono un decimo di quelli dell’americana Apple, numero uno al mondo per capitalizzazione; e sono anche una frazione di quelli della cinese Alibaba. Tutte insieme, le prime dieci società high-tech del Vecchio continente valgono in Borsa meno di un decimo dei primi cinque Big Tech Usa: 500 miliardi di euro contro 5,5 trilioni (migliaia di miliardi); e poco più di un terzo delle prime cinque società cinesi tecnologiche quotate.
L’europa appare quindi stritolata fra i due superpoteri, un nano fra due giganti e i suoi progetti di sviluppare una propria «sovranità digitale» sembrano inadeguati a farle recuperare terreno. Finita l’era della finlandese Nokia, gli smartphone più popolari al mondo — iphone, Galaxy, Xiaomi — sono made in China, Corea del Sud e Stati Uniti. Le maggiori piattaforme di social media e shopping online — Facebook, Amazon, Alibaba, Tencent — sono americane o cinesi, così come i più grandi fornitori di cloud computing e servizi di intelligenza artificiale. E i più grandi produttori di semiconduttori — oltre alla coreana Samsung e alla Tsmc di Taiwan — sono negli Usa: Intel e Nvidia, con quest’ultimo in procinto di diventare ancor più importante se va in porto la sua offerta di acquisto della britannica Arm per 40 miliardi di dollari (33,8 miliardi di euro), un prezzo pari a una volta e mezza il valore il Borsa del gruppo italo-francese Stmicroelectronics.
Mercato...
«È un mix di motivi culturali e strutturali alla radice della mancanza di un grande campione high-tech in Europa», spiega a L’economia Alessandro Piol, venture capitalist da 30 anni in America e da un anno presidente di Epistestemic.ai, società che usa l’intelligenza artificiale in campo biomedico. Il mercato europeo è grande come o più di quello americano, in termini di popolazione e attività economica, ma è molto frammentato per le differenze di lingua e regolamentazioni, fa notare Piol. Ma soprattutto è diversa la mentalità. «Gli americani sono molto più aperti alle innovazioni, disposti a sperimentare nuovi prodotti — continua Piol —. I grandi marchi come Apple hanno avuto successo prima negli Usa e poi sono diventati globali. Amazon ha cominciato a vendere libri online in America nel 1995, cioè 25 anni fa: impensabile una cosa simile in Italia. Anche i cinesi sono pronti ad abbracciare le novità, sono molto più abituati al digitale: usano Wechat, la app sviluppata dal colosso Tencent, per fare di tutto, dallo scambiarsi messaggi all’effettuare i pagamenti».
...e Capitali
Sia in America sia in Cina, poi, c’è una grande abbondanza di capitali: privati, forniti dai venture capitalist e dagli investitori istituzionali negli States; pubblici, finanziati dallo stato, nel regime comunista di Pechino. «Ma le risorse da sole non bastano — sottolinea Piol —. Il successo della Silicon valley, la culla dell’high-tech americano, dipende dalla disponibilità a rischiare da parte di imprenditori e investitori, molto più forte che in Europa; e dal circolo virtuoso creato dal continuo reinvestimento dei capitali. Chi ha successo con una startup infatti va avanti a fondarne altre o a investire in nuove società e così l’ecosistema delle startup continua a crescere».
Indietro nella formazione di campioni high-tech, Europa sta cercando di ritagliarsi un ruolo come potenza regolamentare, proponendosi come leader nella difesa della privacy e nella protezione dei dati degli utenti, contro i nuovi «monopoli» come Google e Facebook. Ma molti sospettano che non basti, di fronte alla velocità dei cambiamenti tecnologici, in particolare quelli legati all’intelligenza artificiale.
L’intelligenza europea
«L’europa deve rimanere rilevante come potere economico globale, non solo come potere di regolamentazione — ha detto al New York Times Francesca Bria, presidente dell’italiano Fondo nazionale innovazione —. Altrimenti rischia di essere schiacciata fra il modello statale cinese e i giganti americani». La leader tedesca Angela Merkel e quello francese Emmanuel Macron hanno stressato il bisogno dell’europa di diventare protagonista nel campo dell’intelligenza artificiale a livello globale e la stessa Commissione europea ha dichiarato l’ai una priorità nei prossimi cinque anni. L’idea è di differenziarsi con una intelligenza artificiale «made in Europe» rispettosa dei valori etici e dei principi della democrazia. «Ma c’è bisogno anche di una rivalutazione del grado di competitività dell’europa nell’alta tecnologia», sostiene Erik Brattberg, studioso del Carnegie Endowment for International Peace, esperto di politiche europee, di sicurezza e relazioni transatlantiche. «Ci vuole un approccio più forte a livello dell’unione europea e soprattutto l’europa deve affrettarsi a digitalizzare la sua economia e a completare la creazione di un mercato unico digitale», ha scritto Brattberg in un recente rapporto sull’ai.
La spinta di Trump
Ma mentre la burocrazia di Bruxelles discute di Ai «made in Europe», anche le più bollenti questioni in tema di regole e controlli se le stanno giocando fra loro l’america e la Cina. È il caso della già citata Wechat e dell’altra app cinese, Tiktok, che il presidente Donald Trump ha accusato di essere una minaccia per la sicurezza nazionale degli Usa, lo stesso motivo per cui ha finora imposto il divieto di usare in America le tecnologie del gruppo telecom cinese Huawei e ha cercando di convincere gli europei ad adottare lo stesso blocco. E c’è riuscito con le autorità di Londra e ora, sembra, anche la Merkel si sta preparando a escludere Huawei dal mercato tedesco.
La pressione americana sta forzando l’europa a riconsiderare le sue relazioni con la Cina anche in campo tecnologico, secondo Fabrice Pothier, capo delle strategie della società Rasmussen global consulting a Bruxelles. I piani per una «sovranità digitale» europea restano comunque vaghi, secondo Rebecca Arcesati, analista dell’istituto Mercator per gli studi cinesi a Berlino, che avverte: «È lunga la strada prima che l’europa arrivi a sviluppare i suoi campioni digitali. E forse è troppo tardi».