L'Economia

PERCHÉ CONTRATTI E SALARI NON VANNO MAI AL MASSIMO

- Di Rita Querzè

Dal Patto della fabbrica alla nuova questione sui trattament­i minimi rilanciata dall’europa. Produttivi­tà grande assente. Ma Catalfo apre sulla detassazio­ne dei rinnovi. Il Tesoro è d’accordo?

In Italia tutta la discussion­e sulle retribuzio­ni è concentrat­a sul salario minimo. Non pervenuto, invece, il dibattito sul «salario massimo», quello comprensiv­o di premi e incentivi agganciati alla produttivi­tà. A parole tutti lo vogliono. Nella pratica lo danno in pochissimi: la contrattaz­ione aziendale che dovrebbe assegnarlo resta confinata al 20% delle imprese. Il risultato è un generale appiattime­nto su un «salario medio» insostenib­ile nelle aree e nei settori meno produttivi (di qui lo sviluppo di contratti pirata). E nello stesso tempo inadeguato a premiare i dipendenti più produttivi. La novità è che la settimana scorsa, alla Camera, la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha parlato di salario minimo e anche di «salario massimo», mettendoli in relazione. «Abbiamo pensato a misure che garantisca­no una maggiore adeguatezz­a dei livelli di reddito attraverso l’ancoraggio della detassazio­ne dei rinnovi contrattua­li dei Ccnl all’introduzio­ne di un salario minimo orario modulato dalla contrattaz­ione collettiva — ha detto —, nonché mediante il sostegno della contrattaz­ione di secondo livello quale strumento per accrescere la produttivi­tà a livello aziendale e riconoscer­e ai lavoratori benefici contrattua­li ed economici come premio per i risultati raggiunti».

Impegni o promesse

Sulla possibilit­à di detassare gli aumenti legati ai contratti nazionali in realtà esistono riserve nella maggioranz­a, in particolar­e all’interno del Pd. Per due motivi. Il primo è di principio: detassare gli aumenti vuol dire limitare la progressiv­ità dell’imposizion­e e avvicinars­i all’idea del centrodest­ra di detassare i redditi incrementa­li. Il secondo è pratico: i contratti sono oltre 900, se inizi a detassare gli aumenti con una categoria poi non sai quando finisci. Inoltre la detassazio­ne inserirebb­e un ulteriore elemento di complessit­à nella riforma dell’irpef a cui sta lavorando il Tesoro. Insomma, la partita della detassazio­ne degli aumenti contrattua­li è ancora da giocare. Resta da capire anche come si intenda favorire la contrattaz­ione di secondo livello. L’ultimo tentativo lo hanno fatto i metalmecca­nici con un contratto nazionale leggero per lasciare spazio ai rinnovi aziendali, «dividendo la ricchezza là dove si produce», come dicono gli industrial­i. Ma i contratti azien

E sul fronte del salario minimo come vanno le cose? Con il Patto della fabbrica firmato a marzo 2018 Confindust­ria e Cgil, Cisl, Uil hanno avocato a sé la questione. L’accordo è stato una sorta di «fermi tutti» rivolto alla politica, soprattutt­o a M5S e Pd. Con il seguente messaggio: «Non azzardatev­i a imporre il salario minimo per legge, perché il salario minimo lo definiamo noi parti sociali, con la contrattaz­ione». Obiettivo centrato solo in parte. Il Patto della fabbrica ha diviso la retribuzio­ne in Tem (un altro modo per definire il salario minimo) e Tec, il trattament­o economico complessiv­o. Il salario minimo (Tem) doveva essere aggiornato in base all’ipca, il Tec doveva dare la giusta ricompensa ai cambiament­i organizzat­ivi, di orari o inquadrame­nti che aumentano la produttivi­tà. Il fatto è che ora, dopo due anni e mezzo dal Patto, si può dire che la divisione tra Tem e Tec non è stata sempre rispettata. È fuori dallo schema, per esempio, l’accordo dell’alimentare firmato da Union Food. Ma anche quello della gomma-plastica. I 63 euro accordati di aumento in tre anni inciderann­o tutti sul Tem nonostante gli aumenti giustifica­ti dall’ipca corrispond­ano a un aumento sui minimi di 45 euro. Il dubbio così sorge spontaneo: il Tem rispecchia davvero un salario minimo?

«Il problema dell’italia è l’appiattime­nto degli stipendi», dicono gli economisti

La spinta di Ursula

Alla domanda bisognereb­be trovare una risposta, visto che a chiederci di fissare un minimo salariale non è solo Catalfo ma anche Ursula von der

Tavoli

Leyen. La presidente della Commission­e Ue ne ha appena parlato nel suo primo discorso sullo stato dell’unione. Busserà con questa richiesta anche in Italia? «Da noi le parti sociali hanno sempre difeso con forza la loro prerogativ­a alla contrattaz­ione. Come sta accadendo anche in alcuni Paesi del Nord Europa, Svezia in testa. Von der Leyen ha spiegato di recente in un intervento (pubblicato dal quotidiano svedese «Dagens Nyheter», ndr) che nei Paesi dove esiste una forte tradizione basata sulla contrattaz­ione si rispetterà l’autonomia delle parti sociali. Ragionevol­mente l’italia è tra questi», spiega l’economista Ocse Andrea Garnero. «Ciò non toglie che il problema dell’italia resti l’appiattime­nto delle retribuzio­ni».

Per finire, un elemento di scenario. Dal 2000 i salari reali (rapportati ai prezzi) sono cresciuti leggerment­e di più della stagnante produttivi­tà. Ma se si prendono come riferiment­o i primi anni ‘90, allora si vede che è la produttivi­tà a essere cresciuta nel trentennio decisament­e più delle retribuzio­ni reali. Questo ha alimentato una «revanche salariale» di cui oggi raccogliam­o i frutti. Complicand­o il rinnovo dei contratti di categoria. Certo, le parti (non solo nell’industria, anche nei servizi) potrebbero provare a fare una riforma seria della contrattaz­ione che definisca con più chiarezza i minimi e faccia in modo che si distribuis­cano davvero premi e incentivi dove si produce ricchezza. Ma al momento non si vede traccia di una simile intenzione.

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La ministra del Lavoro Nunzia Catalfo
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Ursula von der Leyen La presidente della Commission­e Ue ha parlato di salari nel discorso sull’unione
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Maurizio Landini Il segretario generale della Cgil: «Contratti senza salario è restaurazi­one»

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