PERCHÉ CONTRATTI E SALARI NON VANNO MAI AL MASSIMO
Dal Patto della fabbrica alla nuova questione sui trattamenti minimi rilanciata dall’europa. Produttività grande assente. Ma Catalfo apre sulla detassazione dei rinnovi. Il Tesoro è d’accordo?
In Italia tutta la discussione sulle retribuzioni è concentrata sul salario minimo. Non pervenuto, invece, il dibattito sul «salario massimo», quello comprensivo di premi e incentivi agganciati alla produttività. A parole tutti lo vogliono. Nella pratica lo danno in pochissimi: la contrattazione aziendale che dovrebbe assegnarlo resta confinata al 20% delle imprese. Il risultato è un generale appiattimento su un «salario medio» insostenibile nelle aree e nei settori meno produttivi (di qui lo sviluppo di contratti pirata). E nello stesso tempo inadeguato a premiare i dipendenti più produttivi. La novità è che la settimana scorsa, alla Camera, la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, ha parlato di salario minimo e anche di «salario massimo», mettendoli in relazione. «Abbiamo pensato a misure che garantiscano una maggiore adeguatezza dei livelli di reddito attraverso l’ancoraggio della detassazione dei rinnovi contrattuali dei Ccnl all’introduzione di un salario minimo orario modulato dalla contrattazione collettiva — ha detto —, nonché mediante il sostegno della contrattazione di secondo livello quale strumento per accrescere la produttività a livello aziendale e riconoscere ai lavoratori benefici contrattuali ed economici come premio per i risultati raggiunti».
Impegni o promesse
Sulla possibilità di detassare gli aumenti legati ai contratti nazionali in realtà esistono riserve nella maggioranza, in particolare all’interno del Pd. Per due motivi. Il primo è di principio: detassare gli aumenti vuol dire limitare la progressività dell’imposizione e avvicinarsi all’idea del centrodestra di detassare i redditi incrementali. Il secondo è pratico: i contratti sono oltre 900, se inizi a detassare gli aumenti con una categoria poi non sai quando finisci. Inoltre la detassazione inserirebbe un ulteriore elemento di complessità nella riforma dell’irpef a cui sta lavorando il Tesoro. Insomma, la partita della detassazione degli aumenti contrattuali è ancora da giocare. Resta da capire anche come si intenda favorire la contrattazione di secondo livello. L’ultimo tentativo lo hanno fatto i metalmeccanici con un contratto nazionale leggero per lasciare spazio ai rinnovi aziendali, «dividendo la ricchezza là dove si produce», come dicono gli industriali. Ma i contratti azien
E sul fronte del salario minimo come vanno le cose? Con il Patto della fabbrica firmato a marzo 2018 Confindustria e Cgil, Cisl, Uil hanno avocato a sé la questione. L’accordo è stato una sorta di «fermi tutti» rivolto alla politica, soprattutto a M5S e Pd. Con il seguente messaggio: «Non azzardatevi a imporre il salario minimo per legge, perché il salario minimo lo definiamo noi parti sociali, con la contrattazione». Obiettivo centrato solo in parte. Il Patto della fabbrica ha diviso la retribuzione in Tem (un altro modo per definire il salario minimo) e Tec, il trattamento economico complessivo. Il salario minimo (Tem) doveva essere aggiornato in base all’ipca, il Tec doveva dare la giusta ricompensa ai cambiamenti organizzativi, di orari o inquadramenti che aumentano la produttività. Il fatto è che ora, dopo due anni e mezzo dal Patto, si può dire che la divisione tra Tem e Tec non è stata sempre rispettata. È fuori dallo schema, per esempio, l’accordo dell’alimentare firmato da Union Food. Ma anche quello della gomma-plastica. I 63 euro accordati di aumento in tre anni incideranno tutti sul Tem nonostante gli aumenti giustificati dall’ipca corrispondano a un aumento sui minimi di 45 euro. Il dubbio così sorge spontaneo: il Tem rispecchia davvero un salario minimo?
«Il problema dell’italia è l’appiattimento degli stipendi», dicono gli economisti
La spinta di Ursula
Alla domanda bisognerebbe trovare una risposta, visto che a chiederci di fissare un minimo salariale non è solo Catalfo ma anche Ursula von der
Tavoli
Leyen. La presidente della Commissione Ue ne ha appena parlato nel suo primo discorso sullo stato dell’unione. Busserà con questa richiesta anche in Italia? «Da noi le parti sociali hanno sempre difeso con forza la loro prerogativa alla contrattazione. Come sta accadendo anche in alcuni Paesi del Nord Europa, Svezia in testa. Von der Leyen ha spiegato di recente in un intervento (pubblicato dal quotidiano svedese «Dagens Nyheter», ndr) che nei Paesi dove esiste una forte tradizione basata sulla contrattazione si rispetterà l’autonomia delle parti sociali. Ragionevolmente l’italia è tra questi», spiega l’economista Ocse Andrea Garnero. «Ciò non toglie che il problema dell’italia resti l’appiattimento delle retribuzioni».
Per finire, un elemento di scenario. Dal 2000 i salari reali (rapportati ai prezzi) sono cresciuti leggermente di più della stagnante produttività. Ma se si prendono come riferimento i primi anni ‘90, allora si vede che è la produttività a essere cresciuta nel trentennio decisamente più delle retribuzioni reali. Questo ha alimentato una «revanche salariale» di cui oggi raccogliamo i frutti. Complicando il rinnovo dei contratti di categoria. Certo, le parti (non solo nell’industria, anche nei servizi) potrebbero provare a fare una riforma seria della contrattazione che definisca con più chiarezza i minimi e faccia in modo che si distribuiscano davvero premi e incentivi dove si produce ricchezza. Ma al momento non si vede traccia di una simile intenzione.