IL COMMERCIO È LA CURA LA POLITICA NON LO SA
Gli scambi internazionali si sono contratti del 17%, come nel 2008, ma ci sono segnali di una ripresa più rapida Merito anche del maggior peso delle economie asiatiche, avanti nella lotta al virus. Smontare la globalizzazione porterebbe privazioni inaccettabili, anche da chi sostiene partiti che vagheggiano il ritorno del «locale»
Secondo un recente rapporto dell’ifw (istituto per l’economia mondiale) di Kiel, lo scambio internazionale di beni si è contratto del 17% fra il dicembre 2019 e il maggio 2020: un valore non troppo diverso da quello registrato durante la crisi finanziaria del 2007/2008. Questa volta, però, ci sono segnali di una ripresa più rapida. A luglio era stata già riassorbita metà della perdita dei mesi precedenti. Merito anche del peso che hanno ormai le economie asiatiche sulla scena mondiale. Nel mese di agosto la Cina ha visto una crescita del 9,5% delle spedizioni in uscita rispetto all’anno precedente. Nel porto di Ningbo-zhoushan, tra i più grandi del mondo, il volume degli scambi commerciali supera i livelli del 2019 già da luglio, secondo una ricerca riportata dal Wall Street Journal.le esportazioni sudcoreane nei primi 10 giorni di settembre sono state inferiori di appena lo 0,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
E’ un segnale che può indurre persino a un po’ di ottimismo per il nostro Paese: la parte più forte dell’economia italiana è da anni quella orientata alle esportazioni, che ha imparato a misurarsi con successo col resto del mondo. Ma forse più di tutto conta il segnale politico. O conterebbe, se lo si volesse vedere.
Il ridimensionamento
Sono stati in molti, a destra come a sinistra, a immaginare che la pandemia consentisse di ridimensionare fortemente la globalizzazione. È, a tutti gli effetti, il leitmotiv ideologico di quanti stanno usando strumentalmente la necessità di mettere sotto controllo il contagio per suggerire cambiamenti radicali ai nostri stili di vita. Chi dice che «un’altra economia è possibile» intende un’economia in cui le merci viaggiano molto di meno, e ancor meno viaggiano le persone. Un mondo fatto di società più omogenee, produzioni locali, inferiore libertà di movimento e di aggregazione per le persone. Tali restrizioni non dovrebbero essere «a tempo», come «a tempo» ci auguriamo siano i piccoli ma necessari fastidi ai quali tutti ci sottoponiamo: la misurazione ormai quasi rituale della temperatura, i tamponi per chi rientra dall’estero, l’utilizzo della mascherina. Il «nuovo mondo» sarà migliore del vecchio, perché meglio tarato su quelle cose che un’élite intellettuale «sa» essere buone: il ripopolamento dei borghi a spese delle metropoli, le vacanze «intelligenti» e non mordi-e-fuggi, in generale un rallentamento dei tempi dell’esistenza e una ancora più forte riduzione dei suoi spazi. Il che va benissimo, ovviamente, a chi ha la fortuna di vivere all’interno della cerchia Ztl. Un po’ meno agli altri. I dati sono troppo acerbi per trarne conclusioni particolarmente nette: è difficile pensare che il peggio sia passato, quando davvero non sappiamo quanto a lungo resteranno aperte le scuole e per quanto tempo potremo andare avanti senza nuove restrizioni alla mobilità.
Una cosa, però, è certa: quel poco o quel tanto di rimbalzo del commercio internazionale dipende da bisogni e necessità dei consumatori. Ci siamo tutti abituati a un’offerta di beni più internazionale, più varia e più ricca, ad avere più scelta e ad avercela anche se abbiamo un borsellino più magro di altri. È difficile per ciascuno di noi concettualizzare questo cambiamento, renderci conto della misura in cui poter spendere meno per un singolo capo di abbigliamento ci ha consentito di comprarne di più o misurare precisamente quanta soddisfazione abbiamo tratta da una dieta più varia. Ma a tutto questo, che pure non riconduciamo espressamente a nessun accorgimento di carattere politico (il neoliberismo!), faremmo fatica a rinunciare. Gli stessi beni che noi scambiamo non battono più una sola bandiera nazionale: il grosso del commercio internazionale è fatto di cose che servono a realizzare altre cose. Quale sia la posta in gioco, lo spiegava bene l’economista Ludwig von Mises, in un libro di settantasei anni fa. «L’umanità non è libera di ritornare da un livello più elevato di divisione del lavoro e di prosperità economica ad un livello più basso. Come conseguenza dell’età del capitalismo la popolazione terrestre è ora molto più numerosa che all’inizio dell’era capitalistica e gli standard di vita sono molto più elevati. La nostra civiltà è basata sulla divisione internazionale del lavoro».
Sette miliardi
In un mondo di sette miliardi di individui, dove per fortuna negli ultimi 25 anni un miliardo di persone si è risollevato dalla povertà estrema, questo è ancora più vero. Che le persone non lo capiscano, pur giovandosene, è comprensibile ma lo è di meno che si rifiuti di capirlo la politica. La convinzione è che nel momento in cui le persone dovessero cominciare ad avvertire autentiche privazioni, dovute a un rattrappimento del commercio mondiale, sarà facile per i demagoghi dare la colpa a qualcos’altro. In più, l’integrazione economica ha inevitabilmente un costo: crea pressioni affinché la discrezionalità del decisore politico si riduca, un po’ perché l’esperienza di quanto accade in altri Paesi crea la domanda di decisioni e pratiche diverse, un po’ perché, se c’è libertà di movimento di capitali e persone, gli uni e gli altri tenderanno a spostarsi verso quelle giurisdizioni in cui si sentono meno minacciati.
Lo scambio internazionale oggi non è da nessuna parte in cima all’agenda politica. Fa eccezione l’inghilterra, che sta cercando di piazzare Liam Fox a capo della World Trade Organization. Mentre Johnson annuncia trattati di scambio bilaterali, cerca di assicurarsi voce in capitolo proprio nell’organizzazione che governa gli accordi multilaterali. Fox, intervenendo sul tema, ha ricordato che furono le amministrazioni Reagan e Bush a volere l’uruguay Round e, dunque, a far nascere la Wto. Come dire: dei conservatori come me.
Oggi però anche fra i Repubblicani americani e i Conservatori inglese la globalizzazione gode di cattiva stampa. A legittimarla però, anche nel mondo del Covid, non sono le benedizione politiche: bensì i miliardi di transazione che ogni giorno avvengono fra individui che vogliono scambiare qualcosa
gli uni con gli altri.