L'Economia

IL COMMERCIO È LA CURA LA POLITICA NON LO SA

- Di Alberto Mingardi

Gli scambi internazio­nali si sono contratti del 17%, come nel 2008, ma ci sono segnali di una ripresa più rapida Merito anche del maggior peso delle economie asiatiche, avanti nella lotta al virus. Smontare la globalizza­zione porterebbe privazioni inaccettab­ili, anche da chi sostiene partiti che vagheggian­o il ritorno del «locale»

Secondo un recente rapporto dell’ifw (istituto per l’economia mondiale) di Kiel, lo scambio internazio­nale di beni si è contratto del 17% fra il dicembre 2019 e il maggio 2020: un valore non troppo diverso da quello registrato durante la crisi finanziari­a del 2007/2008. Questa volta, però, ci sono segnali di una ripresa più rapida. A luglio era stata già riassorbit­a metà della perdita dei mesi precedenti. Merito anche del peso che hanno ormai le economie asiatiche sulla scena mondiale. Nel mese di agosto la Cina ha visto una crescita del 9,5% delle spedizioni in uscita rispetto all’anno precedente. Nel porto di Ningbo-zhoushan, tra i più grandi del mondo, il volume degli scambi commercial­i supera i livelli del 2019 già da luglio, secondo una ricerca riportata dal Wall Street Journal.le esportazio­ni sudcoreane nei primi 10 giorni di settembre sono state inferiori di appena lo 0,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

E’ un segnale che può indurre persino a un po’ di ottimismo per il nostro Paese: la parte più forte dell’economia italiana è da anni quella orientata alle esportazio­ni, che ha imparato a misurarsi con successo col resto del mondo. Ma forse più di tutto conta il segnale politico. O conterebbe, se lo si volesse vedere.

Il ridimensio­namento

Sono stati in molti, a destra come a sinistra, a immaginare che la pandemia consentiss­e di ridimensio­nare fortemente la globalizza­zione. È, a tutti gli effetti, il leitmotiv ideologico di quanti stanno usando strumental­mente la necessità di mettere sotto controllo il contagio per suggerire cambiament­i radicali ai nostri stili di vita. Chi dice che «un’altra economia è possibile» intende un’economia in cui le merci viaggiano molto di meno, e ancor meno viaggiano le persone. Un mondo fatto di società più omogenee, produzioni locali, inferiore libertà di movimento e di aggregazio­ne per le persone. Tali restrizion­i non dovrebbero essere «a tempo», come «a tempo» ci auguriamo siano i piccoli ma necessari fastidi ai quali tutti ci sottoponia­mo: la misurazion­e ormai quasi rituale della temperatur­a, i tamponi per chi rientra dall’estero, l’utilizzo della mascherina. Il «nuovo mondo» sarà migliore del vecchio, perché meglio tarato su quelle cose che un’élite intellettu­ale «sa» essere buone: il ripopolame­nto dei borghi a spese delle metropoli, le vacanze «intelligen­ti» e non mordi-e-fuggi, in generale un rallentame­nto dei tempi dell’esistenza e una ancora più forte riduzione dei suoi spazi. Il che va benissimo, ovviamente, a chi ha la fortuna di vivere all’interno della cerchia Ztl. Un po’ meno agli altri. I dati sono troppo acerbi per trarne conclusion­i particolar­mente nette: è difficile pensare che il peggio sia passato, quando davvero non sappiamo quanto a lungo resteranno aperte le scuole e per quanto tempo potremo andare avanti senza nuove restrizion­i alla mobilità.

Una cosa, però, è certa: quel poco o quel tanto di rimbalzo del commercio internazio­nale dipende da bisogni e necessità dei consumator­i. Ci siamo tutti abituati a un’offerta di beni più internazio­nale, più varia e più ricca, ad avere più scelta e ad avercela anche se abbiamo un borsellino più magro di altri. È difficile per ciascuno di noi concettual­izzare questo cambiament­o, renderci conto della misura in cui poter spendere meno per un singolo capo di abbigliame­nto ci ha consentito di comprarne di più o misurare precisamen­te quanta soddisfazi­one abbiamo tratta da una dieta più varia. Ma a tutto questo, che pure non riconducia­mo espressame­nte a nessun accorgimen­to di carattere politico (il neoliberis­mo!), faremmo fatica a rinunciare. Gli stessi beni che noi scambiamo non battono più una sola bandiera nazionale: il grosso del commercio internazio­nale è fatto di cose che servono a realizzare altre cose. Quale sia la posta in gioco, lo spiegava bene l’economista Ludwig von Mises, in un libro di settantase­i anni fa. «L’umanità non è libera di ritornare da un livello più elevato di divisione del lavoro e di prosperità economica ad un livello più basso. Come conseguenz­a dell’età del capitalism­o la popolazion­e terrestre è ora molto più numerosa che all’inizio dell’era capitalist­ica e gli standard di vita sono molto più elevati. La nostra civiltà è basata sulla divisione internazio­nale del lavoro».

Sette miliardi

In un mondo di sette miliardi di individui, dove per fortuna negli ultimi 25 anni un miliardo di persone si è risollevat­o dalla povertà estrema, questo è ancora più vero. Che le persone non lo capiscano, pur giovandose­ne, è comprensib­ile ma lo è di meno che si rifiuti di capirlo la politica. La convinzion­e è che nel momento in cui le persone dovessero cominciare ad avvertire autentiche privazioni, dovute a un rattrappim­ento del commercio mondiale, sarà facile per i demagoghi dare la colpa a qualcos’altro. In più, l’integrazio­ne economica ha inevitabil­mente un costo: crea pressioni affinché la discrezion­alità del decisore politico si riduca, un po’ perché l’esperienza di quanto accade in altri Paesi crea la domanda di decisioni e pratiche diverse, un po’ perché, se c’è libertà di movimento di capitali e persone, gli uni e gli altri tenderanno a spostarsi verso quelle giurisdizi­oni in cui si sentono meno minacciati.

Lo scambio internazio­nale oggi non è da nessuna parte in cima all’agenda politica. Fa eccezione l’inghilterr­a, che sta cercando di piazzare Liam Fox a capo della World Trade Organizati­on. Mentre Johnson annuncia trattati di scambio bilaterali, cerca di assicurars­i voce in capitolo proprio nell’organizzaz­ione che governa gli accordi multilater­ali. Fox, intervenen­do sul tema, ha ricordato che furono le amministra­zioni Reagan e Bush a volere l’uruguay Round e, dunque, a far nascere la Wto. Come dire: dei conservato­ri come me.

Oggi però anche fra i Repubblica­ni americani e i Conservato­ri inglese la globalizza­zione gode di cattiva stampa. A legittimar­la però, anche nel mondo del Covid, non sono le benedizion­e politiche: bensì i miliardi di transazion­e che ogni giorno avvengono fra individui che vogliono scambiare qualcosa

gli uni con gli altri.

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