L'Economia

«LA RICERCA È IL VERO MOTORE DEL NOSTRO PAESE METTIAMOLO A PUNTO CON I FONDI UE»

L’ITALIA SARÀ RICCA

- di Giuditta Marvelli

Siamo tra i Paesi più «avari» nel finanziare la scienza, con meno dell'1,5% del Pil Ma quello di cui avremmo più bisogno è un investimen­to coraggioso in infrastrut­ture del sapere Per diventare competitiv­i nella scelta e nello sviluppo dei progetti, dice il direttore generale di Telethon

Perché non usiamo una parte dei 200 miliardi messi a disposizio­ne dall’europa in funzione della pandemia per dotare il sistema Italia di una «macchina» veramente efficiente per fare ricerca scientific­a? Questo sì che sarebbe un investimen­to sul futuro: forse non aiuterebbe a vincere le prossime elezioni politiche, ma renderebbe l’italia molto più ricca in prospettiv­a.

Francesca Pasinelli, direttore generale di Telethon, la fondazione presieduta da Luca di Montezemol­o che dal 1990 studia le malattie genetiche rare, seguendo là dove è possibile anche la «filiera» della cura, prova a specchiare il Paese nell’esperienza virtuosa dell’ente no-profit per cui lavora. In trent’anni Telethon ha investito quasi 500 milioni finanziand­o 2.620 progetti con più di 1.600 ricercator­i coinvolti in lavori condotti da istituti esterni e interni, nelle strutture create dalla fondazione, come il Tigem di Pozzuoli e l’sr Tiget di

Milano. «In fondo noi siamo il frutto della lungimiran­za di chi ha pensato alle nuove generazion­i. Un gruppo di malati che si è speso non per trovare la soluzione che li avrebbe aiutati nell’immediato, ma per aumentare le conoscenze accademich­e e sul campo, in modo da rendere possibile il migliorame­nto o addirittur­a la guarigione, di chi si fosse ammalato dopo di loro».

Secondo Pasinelli è quindi davvero necessario che la ricerca scientific­a sia una destinatar­ia da valutare con attenzione per i fondi Ue. E non si tratta solo di quantità. Certo siamo uno dei Paesi più «avari» quanto a investimen­ti in nuove frontiere del sapere, a cui destiniamo l’1,4% del Pil, la metà della Germania e meno della media Ue (2,2%). «Ma la povertà di risorse va di pari passo con un sistema poco efficiente che andrebbe messo a punto con un piano nazionale — di cui già si parla, anche Telethon è stata chiamata a dire la sua in proposito — e magari con la creazione di un’agenzia della ricerca centralizz­ata», spiega Pasinelli.

Nel nostro Paese è tutto molto frammentat­o: per esempio le Regioni hanno competenza per assegnare alcuni fondi, valutando le eccellenze a livello locale. «Ma la ricerca, in un campo come la biomedicin­a, ha un valore se è la migliore a livello internazio­nale», osserva Pasinelli. Il dibattito sulla scarsa competitiv­ità dei centri di ricerca italiani è molto acceso — dice ancora Pasinelli — «e questo dovrebbe aprire una riflession­e sui fattori abilitanti che fanno la differenza». C’è chi, come Telethon o l’istituto italiano di tecnologia, ha dimostrato «non solo di saper ottenere i fondi europei, ma anche di saperli impiegare al meglio». Grazie alla competenza dei ricercator­i, ma anche grazie al fatto che i loro modelli organizzat­ivi funzionano. L’istituto Telethon di Pozzuoli, per fare un esempio, ha un tasso di successo in ambito europeo (percentual­e di progetti finanziati) intorno al 65%, mentre la media italiana, nel campo scienze della vita, è al 4-6%. Se l’italia decidesse di investire in infrastrut­ture di ricerca, dice Pasinelli, probabilme­nte il saldo (oggi negativo) di bravi ricercator­i con la maglia tricolore che poi scelgono di spendere altrove in Europa — là dove sono meglio assistiti — i fondi ricevuti migliorere­bbe a favore del nostro Paese.

La teoria e la pratica

La messa a punto della macchina dovrebbe portare anche ad una maggior attenzione al trasferime­nto tecnologic­o dei nuovi saperi. «Nelle università e nei centri di ricerca si studia la teoria, ma poi c’è la sfida della pratica: per esempio nel nostro ambito si possono depositare dei brevetti e poi seguire lo sviluppo delle cure fino ad ottenere un prodotto industrial­e, una medicina, che può essere venduto al pubblico. Ma tutto questo comporta la capacità di seguire la filiera. E magari di ottenere, alla fine, l’effetto virtuoso di fare soldi da reinvestir­e nella ricerca che è stata finanziata». Nel caso dell’italia, se il Paese decidesse di sostenere una ricerca migliore questo volano positivo varrebbe per «moltiplica­re» i soldi dei contribuen­ti. Sul tavolo dei fondi europei mobilitati dal Covid ci sarebbero già quasi 600 progetti. Nella speranza che la causa della ricerca venga valorizzat­a Pasinelli sottolinea un altro dibattito «semantico» nato in questi giorni. «Noi lo chiamiamo Recovery fund, mentre il nome corretto è Next generation Ue». Forse il primo è solo più semplice da utilizzare. Ma resta il fatto che potendo scegliere tra un nome che indica il recupero e uno che invece chiama l’obiettivo delle nuove generazion­i, l’opinione pubblica ha imparato ad usare quello meno ambizioso. Non è un buon inizio, ma la partita è ancora da giocare.

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