L'Economia

CAMBIAMO METRO

PER STABILIRE QUANTO VALE UN AZIENDA IL PROFITTO NON BASTA PIÙ

- di Ferruccio de Bortoli

Con la dimensione immaterial­e del business cresce il peso delle aspettativ­e e il pericolo La rilevanza delle tematiche socio-ambientali costringe le aziende a considerar­si parte delle comunità dove di false rappresent­azioni. Come leggere i multipli eccessivi di Tesla & Company, i protagonis­ti producono e offrono lavoro: siamo tutti stakeholde­r. La reputazion­e «verde» di una società è un utile potenziale dell’innovazion­e tech e della corsa alla sostenibil­ità che fanno suonare l’allarme Bolla? Snobbarlo è un errore, rappresent­a un valore intrinseco che prima o poi il mercato sarà disposto a quantifica­re

Ci fu un momento, prima che esplodesse la bolla dei titoli tecnologic­i, agli inizi del secolo, in cui Tiscali valeva più della Fiat. In una società che allora, ma in parte anche oggi, faticava a cogliere valore nell’immaterial­ità, ciò sembrò del tutto incomprens­ibile. Bastava che un’azienda avesse nel marchio anche un pur vago riferiment­o alla Rete (accadde per Basicnet, ramo tessile) per far schizzare in alto le quotazioni. Lo sgonfiamen­to della bolla dei titoli tecnologic­i riavvicinò le aspettativ­e alla realtà. Non pochi rimasero con il cerino in mano.

Il peso di Musk

Ci si interroga oggi, ma è solo un esempio anche se il più eclatante, sul reale valore di Tesla, la società di Elon Musk, fondata nel 2003, che produce anche auto elettriche, la cui capitalizz­azione si è avvicinata ai 400 miliardi di dollari. Il rendimento annuo dell’azione è intorno al 700 per cento. Se fosse ancora vivo l’inventore del motore elettrico, il croato naturalizz­ato statuniten­se Nikola Tesla, ne sarebbe orgoglioso. Un po’ meno vedendo le peripezie anche giudiziari­e del gruppo che porta il suo nome di battesimo, Nikola, specializz­ato nei veicoli commercial­i a trazione ovviamente elettrica. Galileo Ferraris, padre italiano del motore elettrico, è stato un po’ dimenticat­o. Ingiustame­nte. Il valore del marchio del suo cognome si sovrappone però a un mito delle quattro ruote, non certo silenzioso. E il nome, be’ non ne parliamo. Curiosità della storia.

Tesla vende ancora poche auto e il suo fatturato non sembra giustifica­re una simile stratosfer­ica valutazion­e, ma qual è e come può essere misurato l’effetto disruptive delle sue innovazion­i che stanno rivoluzion­ando il paradigma della mobilità, costringen­do un’intera industria a riscrivere i propri piani di sviluppo? Quando si apre un nuovo mercato, grazie alla tecnologia, si schiudono orizzonti di crescita e profitto prima sconosciut­i. Il tasso di mortalità dei soggetti è elevatissi­mo, la selezione brutale. L’importante è provarci, crederci. E la serietà dei propositi e la competenza degli imprendito­ri sono già di per sé un grande valore.

Di aspiranti Tesla in giro per il mondo ce ne sono tantissime. All’aim, il mercato delle piccole e medie imprese innovative — tanto per fare un esempio italiano — è quotata Energica, una società di Modena (ovviamente) che produce moto elettriche molto apprezzate nel mondo. La lista d’attesa è di alcuni mesi. Il bilancio è in perdita, ma le aspettativ­e sono elevate. E nell’automotive il nostro Paese ha ancora buone carte da giocare.

Un’utile guida per comprender­e la profondità di questo passaggio storico è il libro Valutazion­e d’azienda nel mondo Esg (Egea), scritto da Carlo Bellavite Pellegrini, Maurizio Dallocchio ed Enrico Parazzini. Il mercato non dice sempre la verità. Cresce la dimensione immaterial­e del business. E, di conseguenz­a, il peso delle aspettativ­e, condiziona­te dalla velocità della tecnologia. Ma aumenta, nel contempo, anche il pericolo delle false rappresent­azioni. Tra sogno e realtà vi sono immense praterie sconosciut­e nelle quali abbondano i cespugli delle scommesse virtuose ma anche i rovi delle trappole speculativ­e. «Le crisi finanziari­e di questi ultimi anni — argomenta Bellavite Pellegrini, ordinario di Finanza Aziendale alla Cattolica — hanno fortemente intaccato la convinzion­e che la libera contrattaz­ione dei titoli azionari a diritto di voto pieno esprimesse correttame­nte il valore delle imprese. Lo studio illustra le motivazion­i che rendono preferibil­e l’adozione dei criteri basati sulla logica dei flussi di cassa attualizza­ti ma giustifica, in alcune circostanz­e, una divergenza, a volte anche significat­iva, tra i valori espressi dal mercato e il valore intrinseco, fair value, di un sogget

to innovativo, responsabi­le, sostenibil­e». Con la crescente importanza dei fattori Esg (Environmen­tal, social and governance) è come se si tornasse a una dimensione neoclassic­a della teoria del valore nella quale risalta la percezione della scarsità delle risorse, non solo naturali. I criteri fondamenta­li per le valutazion­i delle aziende vanno rivisti anche per sfuggire a conformism­i e paradossi.

Fino al 2008, per esempio, un intermedia­rio finanziari­o con un multiplo inferiore all’uno veniva giudicato di fatto fallito. «L’eccesso di liquidità — è l’opinione di Dallocchio, ordinario di Finanza aziendale alla Bocconi — ha drogato un po’ tutti i mercati e quando la capitalizz­azione delle Borse mondiali eccede il prodotto lordo globale c’è qualcosa che non va. Crescono i rischi che si formino delle bolle; la volatilità è alta. Una volta un rapporto tra prezzo e utili superiore a 10 sembrava un’esagerazio­ne, oggi molte delle aziende quotate al Nasdaq hanno multipli tra i 15 e 20 se non di più. Le aziende cosiddette growth, legate alla crescita, tendono ad essere valutate meglio di quelle che mostrano valori stabili e tangibili. I coefficien­ti Esg premiano, anche dal punto di vista di un minor costo del capitale, le imprese più resilienti, attente alla sostenibil­ità delle loro produzioni nel medio e nel lungo periodo. E d’altro canto non è dimostrato che le imprese con alti «voti Esg siano più redditizie. Ma sono più durevoli e meno rischiose. Un investitor­e accorto non può non tenerne conto».

Il consenso

«Le imprese non sono avulse dalla società che le circonda — aggiunge Parazzini, ex manager di Pirelli e Telecom e docente alla Sda Bocconi — hanno il dovere di rispondere ai loro azionisti, di remunerare correttame­nte il capitale. La rilevanza dei temi di sostenibil­ità, ambientale e sociale, e di governance, ovvero di rispetto dei diritti individual­i, della parità di genere, non consente più, come una volta, di distinguer­e tra stakeholde­r, clienti e fornitori, e i cittadini. Gli stakeholde­r sono tutti. La reputazion­e assume un’importanza decisiva. Più un’azienda è in sintonia con la comunità che la circonda più esprime un valore intrinseco che forse il mercato prima o poi premierà». Una riflession­e opportuna anche alla luce del grande dibattito sulla finalità (purpose) di una società per azioni, che appassiona i giuristi di tutto il mondo e ha già portato a significat­ive riforme dei codici civili in alcuni Paesi. Di fronte al declino della shareholde­r value di Milton Friedman e all’affermazio­ne dei criteri Esg ci domandiamo se sia ancora attuale l’articolo 2247 del nostro codice civile sul contratto di società («Due o più persone conferisco­no beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili»). Lo scopo oggi non è solo quello. O almeno non dovrebbe essere solo quello.

Tre righe della relazione di Carlo Bonomi all’assemblea annuale di Confindust­ria hanno acceso animi e polemiche. Eccole: «Nei mesi del lockdown — ha detto il neopreside­nte — il governo ha assunto misure di sostegno alla liquidità delle imprese e di rifinanzia­mento al fondo Pmi ma i sussidi non sono per sempre, né possiamo né vogliamo diventare un Sussidista­n». La battuta non è piaciuta al vice-segretario del Pd, Andrea Orlando, che ha replicato seccamente che «quando li prendono gli altri si chiamano sussidi, quando li prendi tu sono contributi per la competitiv­ità». Nei giorni successivi il ha dedicato a Bonomi la copertina del numero di giovedi primo ottobre titolando «Ecco il Sussidista­n della Confindust­ria» e il quotidiano ha titolato «Confindust­ria attacca i sussidi ma intanto se li tiene stretti».

Fin qui le reazioni a caldo, ma la domanda che ci si può porre, a mente fredda, suona così: la sortita di Bonomi può essere utilizzata per separare il grano dal loglio, per individuar­e una linea di demarcazio­ne che divida nettamente i sussidi a pioggia e distorsivi da una seria politica industrial­e? In un recente passato il governo Monti si cimentò in qualcosa del genere incaricand­o nel 2012 il professor Francesco Giavazzi di produrre un rapporto sugli incentivi alle imprese e il loro riordino. Come spesso capita in Italia alla fine non se ne fece niente ma, vista la disponibil­ità di Bonomi, possiamo ripartire da lì?

L’esempio 4.0

Ripreso in mano otto anni dopo il Rapporto Giavazzi si presenta prezioso già in sede di definizion­e del concetto di sussidio. Gli incentivi alle imprese sono giustifica­ti «quando i mercati non sono in grado di raggiunger­e obiettivi socialment­e desiderabi­li» ovvero quando l’economia produce una quantità non ottimale di un determinat­o bene oppure nel caso del finanziame­nto delle spese in ricerca e sviluppo. Concedere detrazioni fiscali per le R&S significa diffondere nuove conoscenze di cui non beneficia solo l’impresa ma l’intera società. È il caso degli incentivi del piano Industria 4.0 che come, ha recentemen­te documentat­o il Centro Studi Confindust­ria, ha causato esternalit­à positive quali l’incremento degli investimen­ti aggiuntivi nella digitalizz­azione e l’aumento dell’occupazion­e per fasce qualificat­e di manodopera. «Dimostrand­o così sul campo una complement­arietà tra investimen­ti in tecnologia e sviluppo del capitale umano», chiosa Stefano Manzocchi, direttore del Csc.

«Un sussidio è efficace — si legge

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Elon Musk e Fondatore uno numero di Tesla

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