RIFORMA IRPEF SENZA TABÙ GIÙ SCONTI E SPESE
Interventi solo su aliquote e scaglioni non fanno che rendere ancora meno gestibile un sistema che fa acqua da tutte le parti Con misure strutturali, invece, si potrebbe anche decidere di liberare tanti cittadini di pesi molto gravosi e provocati da ben tre crisi sistemiche
Cosa c’entra la riforma fiscale con le linee guida del Recovery Plan? Se lo sono chiesto in molti, visto che da Bruxelles ci hanno chiarito più volte che le risorse del Recovery Fund non possono — e giustamente — essere utilizzate per finanziare eventuali perdite di gettito a carattere permanente conseguenti alla riforma fiscale. E a loro il ministro dell’economia ha recentemente replicato osservando che, certamente, «la notevole riduzione delle imposte è una spesa strutturale» e come tale non è finanziabile con risorse a termine come quelle del Recovery Fund. Ma ha aggiunto che nulla vieta che il Recovery Fund possa contribuire a sostenere e a finanziare l’entrata a regime della riforma fiscale e le connesse attività (come, del resto, ci eravamo permessi di suggerire su queste colonne il 4 giugno ed il 23 luglio scorsi). Ha perfettamente ragione.
Alle origini del deficit
Sono molti gli esempi di profonde riforme del sistema fiscale che hanno determinato, al momento della loro attuazione, temporanee perdite di gettito che sono state recuperate successivamente — non appena la logica ed i meccanismi sono diventati pratica quotidiana per gli uffici dell’amministrazione finanziaria e abitudini consolidate per i contribuenti — oppure che hanno richiesto diversi anni per entrare a regime e produrre il gettito atteso. L’esperienza italiana è molto chiara. Nel 1973 venne realizzata la riforma tributaria a cui si stava lavorando da più di un decennio. Il cambiamento fu notevole e vennero abolite larga parte dei tributi esistenti e introdotte nuove imposte come l’irpef e l’iva. I dati sul gettito mostrano che ci fu per alcuni anni una contrazione dello stesso e che solo all’avvicinarsi del 1980 il gettito superò quello prodotto dalle imposte precedenti di diversi punti in termini del Pil. Alcuni studi fanno risalire a questo disallineamento tra gettito e spesa pubblica — che continuò ad aumentare in quei anni — la formazione di un disavanzo pubblico importante e l’aumento sensibile del debito pubblico, che purtroppo dal 1973 non si è più fermato. L’esperienza anche degli Usa conferma questo break nel profilo delle entrate a seguito di una riforma fiscale, come quelle realizzate nel 1981 da Reagan e nel 2018 da Trump.
Le agevolazioni
Se dunque quel che il governo ha in mente è una riforma ampia ed incisiva del sistema fiscale, ipotizzare una temporanea perdita di gettito e contabilizzare costi di transizione è del tutto ragionevole. Ovviamente, per ampia e incisiva riforma non si intende un ritocco degli scaglioni e delle aliquote Irpef o una razionalizzazione degli interventi destinati al sostegno dei carichi familiari. Sono aspetti importanti, sia chiaro, che vanno realizzati, ma date le distorsioni del sistema esistente, è ora di avere il coraggio di realizzare una vera riforma fiscale. Una riforma che alla revisione delle aliquote e degli scaglioni associ anche una riconsiderazione delle basi imponibili, ormai non più rinviabile; che elimini larga parte delle spese fiscali, che hanno ormai solo il ruolo di ricompensa per svariati gruppi di interesse; che sia realista sulle vere potenzialità dell’irpef in termini di progressività, data l’elevata evasione, la distribuzione dei contribuenti — il numero di chi sta sotto i 15 mila euro è scandaloso, come lo è quello quello di chi sta sopra i 150 mila euro — e la struttura di finanziamento della spesa.
Un po’ di coraggio
Riforme che rivedano solo alcune aliquote e scaglioni, non fanno, spesso e volentieri, che rendere ancora meno gestibile un sistema che fa ormai acqua da tutte le parti. Ampia e incisiva è una riforma che affronti il tema del rapporto fra imposizione diretta e indiretta; che restituisca un minimo di razionalità al trattamento di redditi provenienti da fonti diverse, con una riduzione del carattere cedolare di molti di essi; che riduca il numero delle imposte (facendo a meno degli ultimi brandelli di Irap); che affronti seriamente la tassazione dei profitti delle imprese, superata dagli sviluppi dell’economia; che riconsideri seriamente le potenzialità dell’iva come imposta sui consumi finali, magari con aliquote pressoché uniformi; che riconosca che in un contesto di basi imponibili digitali, vanno escogitate nuove forme di tassazione dei profitti e delle transazioni digitali, fino a un’imposizione sul fatturato, che sembra essere l’unica soluzione promettente (siamo, infatti, scettici sulle possibilità di trovare in sede Ocse un buon compromesso sulla ripartizione dei profitti delle aziende digitali).
Una riforma siffatta risponderebbe in maniera compiuta alla richiesta
Il ministro dell’economia Roberto Gualtieri
europea di attuare una strategia capace di accrescere stabilmente il nostro tasso di crescita potenziale. In questo contesto, quali siano i costi connessi è piuttosto facilmente intuibile. Vi rientrano certamente quelli connessi a un complessivo upgrade digitale dell’amministrazione finanziaria e dovrebbero forse rientrarvi anche i costi non trascurabili che i privati dovranno sopportare per essere all’altezza di una diversa amministrazione finanziaria. Si tratterà di investimenti non solo in capitale fisico ma anche umano. Ma — contate fino a dieci prima di reagire — dovrebbe rientrare in quei costi una qualche iniziativa intesa a liberare i tanti contribuenti colpiti, senza particolari responsabilità, da tre crisi di prima grandezza nel corso di un decennio. Non si tratta qui di dare un salvacondotto agli evasori, ma di riconoscere che molte imprese — che spesso non hanno mancato di dichiarare un solo euro — non sono e non saranno in grado di riprendere ad investire e a dare lavoro se in qualche modo non si provvederà a liberarle di pesi particolarmente gravosi, perché conseguenti ad eventi esterni. Individuare questi contribuenti è meno difficile di quanto non si pensi: spesso sono caratterizzati dal fatto di onorare gli impegni pregressi assunti con il Fisco (rateizzazioni, rottamazioni e così via) ma di non farcela ad adempiere anche gli impegni fiscali correnti. Per realizzare un fisco amico della crescita serve anche un po’ di coraggio.