MA È UN INDUSTRIALE O UN POLITICO? FENOMENO ESG TRA MODE E REALTÀ
materia di dibattito intellettuale, è diventata un vero e proprio lavoro. Le grandi imprese tipicamente impiegano professionalità precisamente per svolgere questa «funzione sociale» che è ormai una «funzione aziendale». I sistemi fiscali tendono ad agevolare donazioni e interventi da parte delle imprese. Non c’è corporation di un qualche rilievo che non abbia un «bilancio sociale».
A riannodare i fili del dibattito è stato il sito del New York Times, che ha ospitato una ventina di interventi nella sezione Dealbook, ma anche Promarket, la vetrina on line dello Stigler Center della Booth School of Business dell’università di Chicago. In Italia, il Foglio ha dedicato alla questione un numero speciale.
Luigi Zingales ha sottolineato come sia importante mettersi d’accordo su ciò che Friedman effettivamente dice, e cosa no. L’autore di «Capitalismo e libertà» scrive che «un’impresa ha una e una sola responsabilità sociale: quella di utilizzare le proprie risorse e dedicarsi ad attività miranti ad aumentarne i profitti, a patto di rispettare le regole del gioco, vale a dire di impegnarsi in una competizione aperta e libera, senza inganni né frodi». Friedman era ben lontano dal sostenere che le imprese dovessero fare profitto «a qualsia
vengono trattati generosamente e quando il loro lavoro ha senso e significato. I clienti e i fornitori stringono con noi relazioni più forti, perché sanno che si basano sulla fiducia».
Tutto ciò non significa che la ricerca del profitto sia la motivazione che sta dietro ogni singola azione: l’imprenditore che introduce forme avanzate di «welfare aziendale» può ritenere che sia una cosa buona in sé, gli impiegati che investono, quotidianamente, nel rapporto coi consumatori non riflettono solo la formazione fatta in azienda ma anche attitudini e principi etici personali. Fra i critici di Friedman, nel corso degli anni, c’è stato anche il fondatore di Wholefoods, John Mackey, per cui le motivazioni del singolo imprenditore molto spesso hanno poco a che vedere col profitto. Chi mette tutto se stesso nella creazione di una nuova azienda insegue spesso dei sogni: il sogno di migliorare la vita delle persone, con un nuovo prodotto o servizio, l’obiettivo di squadernare tutto un mercato eliminando rendite o inefficienze.
Ma nel momento in cui «ignoriamo la cristallina percezione di Friedman – ossia che ogni azienda dev’essere spinta principalmente dalla ricerca del profitto», scrive Langone, «l’intera missione, compresi i suoi aspetti benevoli, fallisce miseramente». Perché? Perché il mercato, in un certo senso, diventa politica: il management acquisisce una libertà totale, deve rendere conto non più ai suoi azionisti (per l’appunto) ma a gruppi nella società (stakeholder) che di fatto può scegliere sulla base della sua convenienza. Quando il suo mestiere non è fare profitto, è creare consenso.
L’aggettivo che cambia
Non a caso, ben prima di Friedman qualcosa di simile l’aveva scritta anche Luigi Einaudi, in un articolo sul Corriere della Sera del 23 agosto 1924. L’economista piemontese si confrontava con l’«innovazione urgentissima nel meccanismo economico e politico esistente oggi in Italia», la combinazione di parole «banca fascista» che seguiva la «banca cattolica» e quella «socialista». Per carità, scriveva l’economista piemontese, benissimo che «colui il quale ha una fede» cerchi di disporre di «tutti i mezzi a sua disposizione per far trionfare i propri ideali. Se il cattolico vuol giovare a commercianti, ad agricoltori, ad industriali