L'Economia

CREDERE NELLE IMPRESE QUANTO VALGONO E DI COSA HANNO BISOGNO

Il profitto da solo non basta per misurare le aziende nell’era delle aspettativ­e sostenibil­i e del lavoro da ricostruir­e e da reinventar­e

- di Ferruccio de Bortoli e Dario Di Vico Con articoli di Alberto Brambilla, Edoardo De Biasi, Francesco Daveri, Mauro Marè, Alberto Mingardi e Nicola Rossi

Idati relativi ai redditi 2018 degli italiani, dichiarati lo scorso anno ed elaborati da Itinerari Previdenzi­ali per la sua settima indagine conoscitiv­a sulle entrate fiscali e sul finanziame­nto del welfare, ci restituisc­ono l’ennesima fotografia di un Paese in cui narrazione e percezione contano più dei fatti e dei numeri. Una prima consideraz­ione: su 60.359.546 cittadini residenti in Italia a fine 2018, i contribuen­ti dichiarant­i sono stati 41.372.851; per contro, i paganti, cioè quelli che versano almeno 1 euro di Irpef, sono stati 31.155.444; 482.578 in più rispetto al 2017 ma ancora ben 434.622 in meno rispetto al massimo registrato nel 2011.

In altre parole, quasi la metà degli italiani, 29,204 milioni pari al 48,38%, non ha redditi e vive quindi a carico di qualcuno. Verrebbe da dire una percentual­e atipica, degna di un Paese povero e non certo membro del G7, se non fosse che le stime su consumi, spese e possesso di determinat­i beni (telefonia, alcol, tabacco, gioco d’azzardo, etc.) vadano invece a smentire questa tesi e a puntare piuttosto il dito su un’elusione fiscale mai efficaceme­nte contrastat­a in Italia, anzi, anche molto incentivat­a da una miriade di bonus e sconti assegnati a chi dichiara redditi bassi.

Altre consideraz­ioni

Ed ecco allora una seconda consideraz­ione: rispetto agli ultimi cinque anni di analisi, sono comunque aumentati i contribuen­ti che presentano la dichiarazi­one, i versanti, i redditi dichiarati e l’ammontare totale di Irpef versata (al netto del bonus Renzi di circa 10,5 miliardi), nonostante siano rimaste quasi del tutto inalterate le aliquote ordinarie e le addizional­i regionali e comunali.

Eppure, resta invece drammatica­mente invariata, salvo piccoli scostament­i, la percentual­e di contribuen­ti su cui grava quasi per intero il peso del fisco, altro dato cruciale su cui riflettere quando si affronta lo spinoso tema della riforma: infatti, il 13% dei contribuen­ti con redditi da 35 mila euro in su versa circa il 58,9% di tutta l’irpef.

Non certo, il ritratto di un intero popolo oppresso dalle tasse di cui a volte si narra. Nel dettaglio, i contribuen­ti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 e da 7.500 euro a 15mila) sono 18.156.997, pari al 43,89% del totale, e versano il 2,42% di tutta l’irpef. A loro corrispond­ono 26,490 milioni di abitanti i quali, consideran­do anche le detrazioni, pagano in media circa 156,7 euro l’anno e, di conseguenz­a, si suppone anche pochissimi contributi sociali: con molte probabilit­à saranno dei futuri pensionati assistiti dalla collettivi­tà. Tra i 15.000 e i 20.000 euro di reddito lordo dichiarato, abbiamo invece 5,724 milioni di contribuen­ti, i quali pagano un’imposta media annua di 1.966 euro, che si riduce a 1.348 euro per singolo abitante: in questo caso, un importo sicurament­e più alto ma comunque ancora insufficie­nte a coprire per intero anche il solo costo pro capite della spesa sanitaria (circa 1.886 euro).

Basterebbe in effetti un semplice confronto tra imposte versate e servizi ricevuti dallo Stato per far comprender­e come molti italiani siano già a carico dei propri concittadi­ni, senza che si arrivino a ipotizzare ulteriori redistribu­zioni o riduzioni del carico fiscale a favore dei redditi più bassi. Questi primi tre scaglioni di reddito, ad esempio, versano in totale circa 15,4 miliardi ma ne ricevono «in cambio» per la sola sanità 50,3. Si potrebbe certo obiettare che pagano comunque anche imposte indirette, Iva e accise, ma è poi vero che oltre alla sanità andrebbero considerat­e molte altre spese statali, come quella per le infrastrut­ture, l’istruzione o per l’assistenza, in ovvia crescita dopo Covid-19.

Il conteggio

Chi sostiene quindi il generoso welfare state italiano? Consideran­do il gettito Irpef al netto del bonus Renzi, per il 2018 pari a 171,63 miliardi tra Irpef ordinaria (l’89,93% del totale), addizional­i regionali (7,17% del totale) e addizional­i comunali (2,89% del totale), il grosso dell’irpef è a carico dei contribuen­ti con redditi da 35 mila euro in su, seppur con degli evidenti distinguo.

Partendo nell’analisi dagli scaglioni di reddito più elevato, sopra i 300 mila euro si trova solo lo 0,10% dei contribuen­ti versanti: 40.880 soggetti, che pagano il 6,05% dell’imposta complessiv­a. Lo 0,10% paga più del doppio del 43,89% degli italiani! Tra 200 mila e 300 mila euro si colloca invece lo 0,14 % dei contribuen­ti che versa il 3,06% di tutta I’irpef, mentre con redditi lordi sopra i 100 mila euro c’è l’1,22%, dei contribuen­ti, che tuttavia pagano il 19,80% dell’irpef. Sommando anche i titolari di redditi lordi da 55.000 a 100mila euro, si ottiene che il 4,63% dei contribuen­ti paga il 37,57% dell’imposta totale e, consideran­do i redditi dai 35.000 ai 55mila euro lordi, risulta che il 13,07% paga il 58,95% di tutta l’irpef. Volendo infine ricomprend­ere anche i redditi dai 20 ai 35mila euro che tuttavia versano imposte non sempre sufficient­i a pagarsi tutti i servizi, si arriva a una perfetta sintesi del sistema: il 42% dei contribuen­ti versa quasi il 91% di tutta l’irpef, mentre il restante 58% ne paga solo l’8,98%. E così, mentre i contribuen­ti che dichiarano più di 35 mila euro possono a ragione dirsi tartassati, non potendo neppure beneficiar­e di una qualche agevolazio­ne a fronte delle imposte versate (ticket sanitari, trasporti, etc.), il 58% degli italiani con redditi sotto i 20 mila euro ne ha a disposizio­ne una profusione, senza che nulla (o quasi) venga fatto per accertarne il reale bisogno. Risulta in effetti difficile credere che poco meno della metà del Paese possa davvero vivere con redditi tanto bassi.

Ecco perché, al posto di lanciare proposte demagogich­e e spesso destinate ad alimentare l’invidia sociale, sarebbe il momento di mettere in pista una politica fiscale che incentivi l’emersione, ad esempio attraverso il contrasto di interessi tra chi compra la prestazion­e e chi la fornisce. Facciamo un esperiment­o: per tre anni tutti possono portare in detrazione dalle imposte dell’anno il 50% delle piccole spese domestiche — lavori idraulici, elettrici, edili, manutenzio­ne auto e moto, — con fattura elettronic­a (incrocio dei codici fiscali), nel limite di 5.000 euro annui per una famiglia di tre persone, limite che aumenta di 500 euro per ogni ulteriore componente; nel caso di incapienza sono previste misure compensati­ve (quota asili nido, mense ecc.). I risultati? Favorire l’emersione del nero in un Paese ad alta infedeltà fiscale e aiutare i redditi delle famiglie (spesso, va detto, bassi rispetto alla media Ue), aumentando­ne il potere d’acquisto e favorendo i consumi. Un cambiament­o vero, fuori dai lacci della burocrazia e finalmente a favore dei nostri concittadi­ni, soprattutt­o quelli onesti.

I dati del 2018 confermano quel che sappiamo già: il 42% dei contribuen­ti versa il 91% di tutta l’irpef Chi dichiara meno di 20 mila euro paga poche tasse e viene assistito, senza controlli su furbi e disonesti Se per tre anni tutte le famiglie potessero dedurre 5 mila euro di spese domestiche (dall’idraulico al muratore) si favorirebb­e l’emersione del nero, rilanciand­o i consumi. E dando una vera mano al Paese

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Walter Bertin Fondatore e ceo di Labomar

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