TRA DEBITO E CRESCITA NON BASTA UN RIMBALZO, ORA SI DEVE CORRERE
Il probabile recupero del Pil previsto dal governo non è sufficiente per la ripartenza. Decisivo il buon uso dei fondi europei
Aprima vista i dati contenuti nella Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (la Nadef, per gli addetti ai lavori) sembrano descrivere un marcato deterioramento nei conti dello Stato italiano. Nell’anno che viene e nei prossimi, infatti, ci aspettano più deficit (al 10 per cento del Pil) e più debito pubblico (al 160 per cento del Pil), a seguito della pandemia e dei suoi effetti sulle uscite e sulle entrate dello Stato ma anche delle politiche che il governo prevede di adottare per far fronte alla crisi.
Non proprio l’ideale per un paese che per il suo elevato di livello di debito è sempre un osservato speciale quando a Bruxelles si parla di conti pubblici. Senza contare che l’improvviso aumento del debito pubblico concentrato in un solo anno potrebbe anche preoccupare chi, comprando e vendendo titoli pubblici italiani sui mercati, è esposto al rischio di andare incontro a gravi perdite se qualcosa andasse storto. Per ora, i mercati sembrano noncuranti e anzi lo spread Btp-bund continua a scendere. La differenza tra il rendimento che l’italia deve offrire per trovare acquirenti sul proprio debito e quello del titolo più sicuro che c’è, il bund tedesco, è vicina a 125 punti base, circa la metà del suo valore di inizio anno.
Le incertezze
Ma chi sa se siamo alla vigilia di un brusco e amaro risveglio o invece i risparmiatori posso stare tranquilli? Partiamo dai numeri descritti nei documenti ufficiali. Le previsioni aggiornate in base al nuovo quadro macroeconomico a legislazione vigente — cioè prima della nuova legge di bilancio — collocano l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni del 2020 (il deficit pubblico, l’eccesso delle spese rispetto alle entrate dello Stato) al 10,8 per cento del Pil, in aumento di circa 9 punti percentuali rispetto all’1,6 per cento del 2019. In euro, il deficit dell’italia è previsto esplodere dai 28 miliardi del 2019 ai 178 miliardi del 2020, con un aumento di 150 miliardi in un solo anno.
Sono numeri mai visti in tempo di pace. Nel 2009 il deficit dello Stato superò il 5 per cento del Pil. Nel 1995, poco dopo aver scampato il collasso della finanza pubblica grazie ai governi Amato, Ciampi e Dini, il deficit raggiunse comunque il 7,5 per cento del Pil. I numeri di oggi vanno ben oltre i numeri di metà anni novanta. Ma stavolta l’aumento previsto del deficit pubblico non è specifico dell’italia ed è anzi una tendenza comune a molti paesi, ascrivibile essenzialmente alle conseguenze dirette e indirette della pandemia. Il che aiuta.
Guardando nel dettaglio le varie voci del bilancio pubblico riportate nella Nadef si nota che l’aumento del deficit 2020 viene soprattutto da maggiore spesa pubblica, temporanea e permanente. Tra gli aumenti permanenti c’è quello per le pensioni a seguito dei trattamenti più generosi associati anche con l’adozione di Quota 100. A pesare solo temporaneamente sui conti pubblici c’è invece prima di tutto l’aumento verticale della spesa per prestazioni sociali diverse dalle pensioni: quella che serve per il
rifinanziamento degli ammortizzatori sociali per attenuare gli effetti economico-sociali della crisi, per le politiche di contrasto alla povertà e altre prestazioni assistenziali riconosciute che includono anche l’aumento delle retribuzioni attraverso l’aumento del credito di imposta da 80 a 100 euro. Analogamente, in forte aumento temporaneo c’è anche la spesa per «consumi intermedi» cioè quella relativa al back office, alle spese di funzionamento che consentono alla pubblica amministrazione di offrire i servizi pubblici, in crescita temporanea per circa 10 miliardi nel 2020. Infine, anche per gli investimenti pubblici è in arrivo un misto di aumenti temporanei e permanenti nel 2020-22, seguiti da una solo lieve diminuzione nel 2023.
La tesi del governo
Nell’insieme, gli aumenti di spesa previsti portano con sé sforamenti non marginali dagli obiettivi di finanza pubblica, peraltro incoerenti con la soglia massima di indebitamento finora autorizzata dal Parlamento per il 2021 e il 2022. Ma — dice il governo — le modifiche apportate al sentiero di rientro del deficit sono motivate dagli interventi di stimolo necessari per supportare la ripresa economica, anche con l’uso degli strumenti finanziari introdotti a livello europeo. In ogni caso, dietro alla sventagliata di nuove voci di spesa e agli sforamenti nei conti previsti per il 2020, ci sono elementi che tengono tranquilli i mercati.
L’obiettivo di deficit è comunque fissato in calo dopo il boom del 2020: al 7 per cento del Pil nel 2021, al 4,7 per cento nel 2022 e al (fatidico, perché coerente con i parametri di Maastricht) 3 per cento nel 2023. E il cosiddetto deficit primario — lo sbilancio tra spese e uscite dello Stato al netto della voce al di fuori del controllo del governo, cioè quella per interessi — tenderebbe con gradualità verso il pareggio di bilancio nei due anni successivi, fino ad azzerarsi nel 2023.
Il rischio
Rimane che il -9 per cento della crescita del Pil 2020 e il sostanziale azzeramento dell’inflazione farà aumentare il rapporto debito-pil a parità di deficit. Con una montagna di debito da ripagare rimbalzare al ritmo dello zero virgola stavolta non basterà. Serve crescere di più così che la grande recessione del 2020 lasci solo la (pesante) eredità di un più alto rapporto debito-pil al 160 per cento e oltre, senza che gli eventi degli ultimi mesi mutino permanentemente in negativo la capacità di rimborso del suo debito da parte dell’italia. Serve anche che l’europa politica (governi, Commissione e Bce) non chiuda troppo presto l’ombrello protettivo a fronte delle accresciute necessità di finanziamento dell’italia. E — da ultimo — serve che l’italia non sprechi malamente i fondi che arriveranno attraverso il Recovery Fund.
Insomma, ad oggi, si vedono più incognite che certezze nel futuro della finanza pubblica italiana.