GOVERNANCE & DONNE QUOTE PER TUTTE LE GRANDI
I rinnovi delle maggiori società quotate e non, rivelano che se non ci sono obblighi prevalgono i board maschili. La proposta di estendere la legge
Tante volte ci si è domandati in passato, e ci si domanda oggi, se davvero serva una legge per garantire parità di genere negli organi delle società, in primo luogo nel consiglio di amministrazione. Le obiezioni sono molte, soprattutto ora che, si dice, «l’europa è in mano alle donne», con Ursula von der Leyen alla presidente della commissione europea, Christine Lagarde presidente della Banca centrale europea e la sempre determinante Angela Merkel.
Se loro sono arrivate al vertice, perché riservare posti alle donne? Per quanto riguarda l’italia questo bisogno continua a esserci. La cartina di tornasole di questa necessità arriva dal confronto tra le società quotate (per le quali esistono quote, riservate al genere meno rappresentato, introdotte dalla legge Golfo-mosca del 2011) e non quotate (per le quali questo obbligo non c’è). Nello specifico si tratta di società a proprietà familiare. L’analisi è stata realizzata dall’osservatorio Aub dell’università Bocconi in vista della terza edizione di Family Business Festival (articolo a fianco). Sono state prese le prime 10 aziende (per dimensione) che nella primavera di quest’anno hanno rinnovato il proprio consiglio di amministrazione. Le prime 10 quotate e le prime 10 non quotate, i cui risultati sono nella tabella pubblicata in pagina.
Elcin Barker Ergun, ceo del gruppo della famiglia Aleotti
Numeri
Va ricordato che la legge Golfo-mosca prevedeva una quota dell’organo sociale pari a un terzo e per tre mandati. Dal 1° gennaio la quota è salita al 40% per ulteriori sei mandati. Le società soggette alla legge e che hanno rinnovato in primavera Cda e/o collegio sindacale (per quest’ultimo organo il calcolo si fa per difetto, secondo l’indicazione della Consob) sono, dunque, dovute passare a questo tetto più alto. «Se si esaminano le società di maggiore dimensione andate a rinnovo nel 2020 la legge è stata rispettata — dicono Guido Corbetta e Fabio Quarato, docenti Bocconi autori della ricerca —. Al contrario, sempre guardando i dati relativi alle prime 10 aziende non quotate più grandi, non si può dire altrettanto». Anzi, «i dati mostrano come in diversi casi le donne siano completamente assenti dai consigli di amministrazione, e solo in un caso l’incidenza arriva alla quota di un terzo». Ben 5 società su 10 hanno, infatti, Cda completamente maschili e la società che arriva al terzo del consiglio è Menarini, che si segnala anche per avere una amministratrice delegata esterna alla famiglia, Elcin Barker Ergun.
«Per le aziende non quotate non esiste obbligo normativo (e nessuna best practice del Codice di corporate governance) che preveda regole a favore del genere meno rappresentato. Pertanto — proseguono Corbetta e Quarato — queste imprese rappresentano probabilmente il contesto ideale per misurare la rappresentanza “reale” del genere femminile, e per “misurare” il progresso culturale in atto nel Paese. La lettura di questi dati sembra dunque portare alla conclusione che, nonostante il clamore mediatico e il dibattito sulla necessità/opportunità di prorogare gli effetti della legge Golfo-mosca (per ulteriori sei mandati), ci sia effettivamente ancora bisogno di una imposizione normativa per assicurare la rappresentanza di genere».
Infatti, laddove non c’è un obbligo (tra le società non quotate), la presenza delle donne continua a rimanere molto bassa, «al di sotto probabilmente di quanto ci si aspetterebbe. Tralasciando i potenziali effetti positivi sulle performance, peraltro già dimostrati da studi in materia anche tra le aziende non quotate, come il »Gender Interaction within the Family Firm» , oltre agli stessi risultati dell’osservatorio Aub, i dati sembrano indicare che il Paese non sia ancora pronto a fare a meno di una imposizione normativa sul tema della parità di genere». Quindi, che fare? Gli studiosi arrivano a una conclusione che farà discutere. «Ci si dovrebbe forse chiedere se non sia necessaria una disposizione normativa anche per le società non quotate, per lo meno in quelle di una certa dimensione. Potrebbe essere la strada per compiere un percorso di crescita culturale, al pari di quanto avvenuto negli ultimi 9 anni, anche nelle altre grandi aziende del Paese. Un percorso di crescita di cui il Paese avrebbe certamente bisogno».