PICCOLI PASSI PER TORNARE A CAMMINARE
La calzatura ha subito la crisi, ma qui la differenziazione dei prodotti e l’elevata qualità hanno permesso di perdere meno che altrove
La pandemia ha tagliato i consumi, ma le scarpe venete hanno resistito meglio dei distretti di Toscana, Campania, Marche e Puglia
Franco Ballin: non si può prescindere dalla formazione. La clientela chiede sempre più una risposta manageriale
La caduta dei consumi e dell’export nell’anno più difficile. E il tentativo di reagire con uno sforzo di riordino delle aziende più piccole, di aumento delle competenze, di inserimento di manager. Sono queste le linee di sviluppo del sistema della calzatura veneta, che inizia a fare i conti di un anno che ha scosso in maniera rilevante anche questo sistema produttivo.
Il dato di partenza sono i rapporti con l’estero, il punto di forza che ha tenuto a galla il sistema veneto in questi anni. Nei primi sei mesi del 2020 però sono andate perdute il 20,2% delle esportazioni rispetto allo stesso periodo del 2019. Il dato giunge da un indagine del Centro studi Confindustria
Moda per Assocalzaturifici sull’intero sistema, ed è una flessione che appare tuttavia meno pesante, almeno per il primo trimestre dell’anno, se osservata dalla platea dei distretti, ambiti che storicamente esprimono prestazioni medie migliori. In questo caso l’analisi che aiuta a leggere il settore è quella prodotta dai ricercatori di Intesa Sanpaolo con il rapporto Monitor dei distretti.
Le aree
L’ultimo studio, aggiornato alla prima frazione del 2020 e dunque in un momento intaccato dal Covid-19 soltanto nella parte finale, mette in luce la distinzione fra le tre aree della calzatura veneta, cioè quella sportiva di Montebelluna, quella delle grandi firme della Riviera del Brenta e, infine, il sistema che insiste sull’area veronese. La flessione nel business estero è marcata in tutti i casi ma con maggiore profondità negli ultimi due. Il distretto del Brenta, che segna globalmente un -18,7%, paga un ripiegamento pesante per i mancati ordini dalla Francia, principale mercato di sbocco e dalla Svizzera. Qui i fornitori dei marchi del lusso hanno registrato una diminuzione del 20% delle richieste arrivate durante il lockdown rispetto allo stesso momento del 2019, e patiscono l’incertezza sulle collezioni future.
I motivi di preoccupazione più acute ricadono sulle realtà di dimensione ridotta, a loro volta terziste nei confronti dei player maggiori, ma penalizzate dalla scelta di molti produttori di riportare in casa varie fasi di lavorazione per recuperare livelli accettabili di utilizzo degli impianti.
Non è molto più felice il quadro per la calzatura veronese, il cui fatturato estero fra gennaio e marzo segna un -15,8%. Qui ad impoverire il business è il congelamento dei principali mercati europei, ad eccezione di Germania e Paesi Bassi. Meno pesante, invece, per quanto sempre con un calo delle esportazioni del 6,3%, è la situazione dell’area montebellunese, vocata allo sport ed ai prodotti tecnici. A limitare la caduta è stata soprattutto la tenuta del mercato americano. Anche gli ordini verso
Austria, Germania, Polonia e Nord Europa accusano un rallentamento, ma la riduzione è stata parziale ed è lecito attendersi un rinvio del business ed il mantenimento dei tempi concordati per le consegne di materiale invernale, scarponi da sci in primis.
Il confronto
Nella prima metà dell’anno, va anche rilevato, che i 20 punti abbondanti persi dalla calzatura veneta in termini di export sono anche il dato meno profondo rispetto al calo osservato in altre regioni (Toscana -44%, Campania -34%, Marche -32%, Puglia -22%); ma rimane il fatto che l’area nordorientale rimane la prima in Italia per la quota di business internazionale del settore (27,4%). Questo, perciò, non può che inquietare ulteriormente il veneto Siro Badon, presidente nazionale di Assocalzaturifici visto che il mercato interno, contestualmente, non riporta segni di vitalità degni di nota: «La spesa delle famiglie fra gennaio e giugno è scesa del 30%, nonostante l’impennata degli acquisti online (+42%) dovuta alla chiusura dei negozi durante il lockdown. La ripartenza, dopo l’allentamento delle misure restrittive, procede a fatica con acquisti in frenata da parte degli italiani (-29% in quantità a maggio e -7% a giugno) mentre l’export, dopo il crollo del bimestre marzo-aprile (-50%), ha fatto segnare un -27% in volume nei due mesi successivi. La congiuntura è negativa anche sotto il punto di vista delle conseguenze sul lavoro, con una diminuzione sia delle aziende (-77 da gennaio) che del numero di addetti (-520)».
Tutto ciò, in ogni caso, non scoraggia gli operatori e, anzi, contribuisce a generare reazioni in termini di visione dei cambiamenti e di interpretazione delle nuove sfide del mercato. A cominciare da un ripensamento delle caratteristiche del management .Inin questo si inserisce la proposta del Politecnico calzaturiero della Riviera del Brenta che parte da uno studio sulle competenze e i profili manageriali per affrontare i nuovi trend. La realtà di fondo, cioè, nel distretto delle griffe è data da aziende grandi e ben strutturate assieme ad una quantità molto elevata di realtà minori nelle quali la cultura della gestione non si è ancora sufficientemente sganciata dai modelli familiari.
Lo spiega il presidente del Politecnico, Franco Ballin: «La Riviera del Brenta è caratterizzata dalla presenza diffusa di una filiera di aziende terziste che collaborano con i brand ,da imprese con marchio proprio e da impianti produttivi di multinazionali. Per quanto riguarda le prime due tipologie i grandi clienti chiedono ormai una risposta ‘industriale’ ai propri fabbisogni. Ma i produttori che hanno intrapreso un percorso di managerializzazione – riconosce Ballin sono ancora pochi».