IL PARADOSSO DELLA LIQUIDITÀ: IL DENARO C’È ORA VANNO AGEVOLATI GLI INVESTIMENTI
Oltre 56 miliardi in più sui conti correnti in un anno, ma le imprese non riescono a spenderli. La finanza si muove, lo Stato invece pensa a rottamare
Un intero Paese sembra aspettare la fine del Covid, l’avvio dei piani europei o le scelte di grandi gruppi: nell’attesa non avvia programmi e ricorre alla protezione della liquidità
La crescita del risparmio parcheggiato dalle imprese sui conti correnti bancari nell’horribilis 2020 (+56,6 miliardi in un anno) è un tema la cui discussione è rimasta confinata agli addetti ai lavori. Forse perché sa di contraddizione rispetto a una narrazione che interpreta la crisi pandemica del 2020 e i suoi riflessi sull’economia con categorie stereotipate. E invece dentro quel fenomeno ci sono molte ragioni da indagare che riguardano il funzionamento delle imprese, il rapporto tra scelte aziendali e policy governative e forse anche considerazioni di carattere sociologico (lo slittamento dei concetti di protezione e rischio). Innanzitutto va detto che non si tratta di un fenomeno italiano, tutt’altro. Come spiega il presidente dell’abi, Antonio Patuelli, i dati della Bce ci dicono che a novembre 2020 su base annuale in Francia i depositi delle imprese erano saliti del 25,9%, in Germania +14,7%, nell’eurozona +18,2% e in Italia +19,2 per cento. È interessante sottolineare come in tutti questi casi le aziende tendono a incrementare i risparmi più velocemente delle famiglie che pure hanno rimpinguato nel 2020 i conti correnti: in Francia +9,7%, in Germania +5,6%, nell’eurozona +7,7% e in Italia +6,4 per cento. L’unico caveat che va tenuto a mente valutando flussi e celerità è che lo stock di risparmio delle famiglie è storicamente superiore e quindi tutto va ponderato in chiave relativa. In termini assoluti, comunque, in Italia dal novembre ‘19 al novembre ‘20 l’incremento dei depositi bancari è stato di 128 miliardi, di cui 56,6 da parte delle imprese e il resto dalle famiglie.
Più debiti, migliori condizioni
In parallelo con l’aumento dei depositi è cresciuto l’indebitamento delle imprese che hanno sostituito i mutui contratti in epoca pre-covid con nuovi prestiti a garanzia statale. Il monte-finanziamenti intermediato dal Fondo centrale è stato di 129,5 miliardi e altri 20,8 sono stati concessi dalla Sace. Analizzando i dati Abi sui tassi applicati, si può vedere come in media si sia passati dal 2,48% del dicembre ‘19 al 2,28% di un anno dopo, in sostanza la media delle imprese italiane può aver guadagnato in quest’opera di sostituzione venti punti base. Che nel caso delle aziende con rating migliore possono essere saliti a 30-40. Rinegoziando i prestiti le imprese hanno goduto di un altro vantaggio: la possibilità di ottenerli in una quantità superiore del 25% dell’ammontare, questo in virtù dei provvedimenti governativi pro-liquidità.
«L’impatto della crisi pandemica è stato molto differente tra settore e settore, ma complessivamente definirei quello delle imprese come un comportamento di protezione — spiega Marco Gay, presidente di Confindustria Piemonte —. Davanti a una crisi di domanda che ha abbattuto del 15% il valore aggiunto, hanno pensato bene di dotarsi di risorse aggiuntive e i prestiti sono serviti a far fronte al rallentamento del cash flow». Gay riconosce come il sistema delle garanzie abbia funzionato, ma restano pur sempre finanziamenti che si dovranno restituire, «in condizioni di normalità un’azienda si indebita per investire, non certo per garantirsi il capitale circolante o finanziare le scorte come purtroppo sta capitando adesso». Il presidente di Confindustria Piemonte esclude che l’arbitraggio sulla finanza aziendale si sia abbinato a utilizzi impropri della cassa integrazione. «Per molti dei nostri associati è stata la prima volta in cui hanno dovuto ricorrere agli ammortizzatori sociali e ne hanno compreso la complessità. Se ci sono stati dei furbi sono fuori dal nostro perimetro associativo e non sono imprese che vogliamo rappresentare».
Cade la spinta sul nuovo
Uno choc tributario, come defiscalizzare gli investimenti sul capitale di rischio servirebbe a irrobustire le imprese
Le aziende dunque hanno fatto provvista, hanno dato vita a una sorta di partita di giro patrimoniale tra nuovo indebitamento, finanziamento delle attività di routine e aumento dei depositi che si è abbinata sul versante delle scelte più strettamente imprenditoriali a una strategia dei due tempi, ovvero a un rinvio degli investimenti (segnalati, secondo Eurostat, a quota -10% nel
È un atteggiamento che ci accomuna a Francia, Germania e in generale alla zona Euro, ma non è gratis: perché tenere fermi i fondi è dispendioso, ma soprattutto si continua a perdere competitività
2020 e previsti a +6% nel 2021). Anche nelle regioni più dinamiche, infatti, sono stati completati solo i progetti già arrivati alla fase decisionale: in Emiliaromagna nell’aeronautica, nel packaging e nella logistica, in Veneto vengono segnalati aumenti di capacità produttiva da parte di un numero di aziende pari alle dita di una mano, alcuni gruppi hanno investito nell’ecommerce e alcune operazioni di riorganizzazione dell’offerta mediante fusioni sono andate comunque avanti.
Ma a raffreddare le motivazioni e il clima di fiducia delle imprese è stata innanzitutto la seconda ondata del virus e in sequenza il rinvio delle principali manifestazioni fieristiche e l’impossibilità per le aziende esportatrici di far viaggiare i loro manager. Anche l’irrealizzabilità di trattative in presenza ha avuto il suo peso, come segnalano gli imprenditori trevigiani («l’ha detto anche Draghi che è difficile assumersi rischi di investimento solo in base a una conversazione su Zoom»), e ha comunque compromesso l’avvio del secondo tempo di cui sopra.
L’attesa di Transizione 4.0
Per uscire però dalla fenomenologia spicciola, un’indicazione di trend più robusta ci viene dalla rilevazione dell’ucimu: gli ordini di macchine utensili e robot nel quarto trimestre del 2020 sono calati sul mercato interno del 28% anno su anno. L’indice assoluto che nel quarto trimestre ‘19 era a quota 172 è sceso ora a 123. La sensazione è che le imprese che devono rinnovare i macchinari e completare i programmi di digitalizzazione si siano poste in posizione d’attesa e aspettino il varo di Next Generation Eu, che dovrebbe comprendere l’ambizioso piano Patuanelli detto Transizione 4.0 (valore: 24 miliardi). Del resto le prime bozze circolate a novembre davano già indicazioni di provvedimenti migliorativi sia in termini di aliquote dell’iper-ammortamento sia di allungamento dei tempi di consegna delle macchine e le indiscrezioni hanno contribuito a determinare un rinvio degli ordini.
Completando così la sensazione di trovarci di fronte a un Paese in surplace che aspetta il superamento della pandemia, l’avvio dei programmi europei, le scelte di grandi gruppi come Stellantis. Ma aspettare, si può obiettare, non è affatto un pasto gratis, per un doppio ordine di motivi: a) Comunque ci si indebita a più del 2%, per poi depositare liquidità in eccesso remunerata allo zero e l’attesa ha dunque un costo tangibile; b) Se le imprese italiane ed europee investono in ritardo la loro posizione competitiva versus l’asia non migliora di certo. In sintesi: imprese oggi ferme ai box con il pieno di carburante sono una ricetta vincente per il domani?
Qualcosa in più
Secondo un’indagine campionaria diffusa da Confindustria Piemonte, il 20% delle imprese ha nel cassetto programmi di investimento di un certo impegno anche se è altrettanto vero che solo il 9,6% ha ordinativi oltre i 6 mesi. E del resto la compresenza di imprese e settori in grave difficoltà (sicuramente il tessile-abbigliamento) con altre che stanno aspettando solo il vaccino per riprendere a viaggiare e crescere è un elemento caratteristico dello scenario manifatturiero 2021, uno scenario nel quale le stesse medie statistiche valgono molto meno di ieri. E fenomeni come l’aumento dei depositi bancari in capo alle imprese finiscono per stupire meno di quanto si possa pensare. Nella crisi del 2008-2015 si usarono metafore come tartarughe e lepri per designare le aziende lente e quelle veloci, nel lessico di oggi usiamo il termine «zombie» per identificare le imprese più a rischio, ma la sostanza non cambia e ci fa intuire un nuovo ciclo di polarizzazione. «Quello che tenderei ad escludere però è che l’aumento dei depositi bancari corrisponda a un calo della motivazione imprenditoriale — sostiene Gay —. Tutt’altro. Per cui dovendo dare un suggerimento in termini di policy non mi fermerei al Recovery Fund, ma lo abbinerei con uno choc fiscale». Provvedimenti di defiscalizzazione degli investimenti sul capitale di rischio e di patrimonializzazione che servano a irrobustire le imprese e a preparare un ciclo di crescita dimensionale.