TRATTORIA O PRIVATE EQUITY IL DERBY DELLA RISTORAZIONE
Oltre la pandemia e le proteste, il futuro di una categoria che già prima aveva sperimentato il futuro. I dieci anni della corsa ad aprire bar e ristoranti e l’arrivo delle catene. Un mercato da 55 miliardi che piace ai fondi
Le previsioni delle associazioni di categoria sono nere: una quota ampia dei 290 mila tra ristoranti e bar rischia di chiudere, le stime parlano di almeno 55 mila imprese, 22 mila lo hanno già fatto nel 2020 e il resto sarà obbligato ad abbassare la claire nel 2021. Con effetti a catena sull’occupazione visto che a consuntivo del primo anno di pandemia all’istat risultano cancellati circa 250 mila posti di lavoro.
Ma, una volta passata questa drammatica congiuntura ed elaborato il lutto di una selezione darwiniana, quale sarà il futuro del settore? Come evolverà la domanda di cibo fuori casa degli italiani e in parallelo che tipo di offerta maturerà? Ci sarà una ripresa del modello italiano tradizionale, quello che possiamo sintetizzare nella parola “trattoria” oppure vedremo una progressiva avanzata delle grandi catene e del private equity?
La Società del Cibo
Prima di inoltrarsi in terra incognita vale la pena ricordare come il settore della ristorazione abbia goduto pre-virus di una straordinaria espansione. I consumi ristagnavano ma la ristorazione fuori casa cresceva. Tra il 2008 e il 2018 hanno chiuso 64 mila negozi ma avevano visto la luce 45 mila nuovi bar e ristoranti. Aprivano di continuo piadinerie, bistrot persino trattorie nepalesi generando però la contraddizione di nessun barriera all’ingresso del business e una vita media del singolo esercizio decisamente bassa. Ad alimentare quello che appariva come un eccesso di offerta (la rotazione delle insegne in una città come Milano è stata vorticosa) c’era una domanda in costante crescita grazie al mutamento degli stili di vita e alla nascita della Società del Cibo. Nella quale scegliere cosa mangiare è diventato un elemento identitario pari, se non superiore, alla scelta dell’abbigliamento. Con la differenza, ai fini della domanda, che un abito dura anni e invece si mangia tre volte al giorno.
Ripartenza?
«Sono mesi difficili per la categoria alle prese con un vero tsunami, per cui il nostro primo impegno è quello di garantire una rappresentanza efficace ai ristoratori e sviluppare una corretta interlocuzione con il governo — dice Roberto Calugi, direttore della Fipe-confcommercio — ma non per questo chiudiamo gli occhi sui mali strutturali del settore. E siamo disponibili a ragionare di futuro. La ricetta per noi è una: più risorse manageriali».
Nella tradizione italiana il cuoco era nella maggior parte dei casi anche l’imprenditore del ristorante con la conseguenza che le competenze necessarie a restare sul mercato si appiattivano. Zero manager e una serie di funzioni appaltate al cugino commercialista, alla cognata avvocato e alla zio consulente del lavoro. Nel mercato della ristorazione post-pandemia è evidente che servirà altro, anche il ristorante dovrà attrezzarsi diversamente. Ma potrà confrontarsi con una domanda altrettanto vivace come quella della seconda parte degli anni Dieci, che ha visto tra l’altro nascere e lievitare un business nuovo come quello del food delivery? Sul futuro del mercato della ristorazione ci sono idee diverse. I pessimisti collocano la ripartenza molto in avanti, addirittura nel 2023 o 2024. Temono che dalla crisi gli italiani escano con una diminuzione media del potere d’acquisto che li porterà a tagliare le spese considerate superflue, sono preoccupati di una riapertura dei flussi turistici molto lenta e graduale, temono infine la remotizzazione del lavoro che porterà stabilmente una quota tra il 30 e il 50% dei lavoratori-pendolari delle grandi città a restare a casa.
Gli ottimisti sostengono, al contrario, che sul breve ci sarà una rotazione della domanda: gli italiani costretti a casa hanno finora privilegiato gli acquisti di elettrodomestici, arredo e tecnologia, ma quando potranno uscire daranno sfogo ad altre esigenze — come mangiar fuori e recuperare socialità — rimaste compresse nell’annus horribilis. Chi vede rosa aggiunge che la Società del Cibo si riprenderà i suoi spazi e che le giovani generazioni sono molto orientare a consumare i pasti fuori casa.
I brand e la finanza
È chiaro però che anche nel caso in cui il mercato dovesse rimanere largo sarà al contempo estremamente competitivo. E due appaiono i macro-soggetti che in qualche modo se lo contenderanno: la trattoria-ristorante della tradizione e le catene. La prima, come detto dagli stessi dirigenti della Fipe, dovrà sicuramente evolvere la propria proposta dal punto di vista manageriale, dovrà cominciare a cimentarsi con l’uso dei dati per formulare il menù, proverà a geolocalizzare i suoi clienti ma dal punto di vista finanziario è assai probabile che dalla crisi esca con le ossa rotte. «Per questo oltre a chiedere i ristori noi parliamo della solidità finanziaria delle Pmi italiane. Occorrerà allungare i tempi di rientro dal debito e adottare misure di defiscalizzazione degli utili che rimangono in azienda. Altrimenti nessuna impresa italiana tradizionale potrà sopravvivere nei centri storici delle grandi città», dice Calugi.
Concorda Cesare Fumagalli, ex direttore della Confartigianato e da qualche settimana membro della segreteria del Pd: «Sono ottimista e penso che nel mercato di domani ci sarà ancora ampio spazio per una tipologia di aziende tradizionali che sappiano però adeguarsi, usare il digitale e fare della formazione professionale una leva di competitività». Le trattorie avranno ancora dalla loro l’ampio retroterra della filiera agro-alimentare italiana e quindi «possono metter in campo una proposta originale, non omologata a modelli artificiosi e capace anche di ridare all’utente socialità».
E il private equity? I fondi negli ultimi anni hanno già fatto più qualche sortita nella ristorazione: i nomi delle catene partecipate sono Temakinho, Panini Durini, Spontini, La Piadineria. Non tutte sono state operazioni di successo, ma secondo Francesco Pascalizi, amministratore delegato di Permira, in Italia «il mercato è estremamente interessante, vale 55 miliardi e ci sono pochi settori di queste dimensioni da noi». Un mercato nel quale la quota occupata dalla catene è meno del 10% mentre mediamente nel mondo è doppia e in una grande città come Londra supera il 50%. «C’è dunque lo spazio per crescere e infatti noi non abbiamo mai smesso di investirci. La Piadineria di cui siamo soci nel 2020 ha aperto, dando prova di coraggio, 25 nuovi ristoranti». Ma l’avanzata delle catene comprimerà l’offerta italiana facendo avanzare una sorta di globalizzazione del gusto? «Non credo proprio — risponde Pascalizi —. Per esempio alla Piadineria il management è paranoico nel difendere la qualità e l’italianità della nostra proposta. Il sogno sarebbe poter far crescere il gruppo all’estero. La vera sfida è innovare e professionalizzare il settore, rendendolo più moderno. L’unico rammarico, semmai, è che forse ci sono poche aziende strutturate e di dimensioni adeguate sulle
quali poter investire».