MICROCHIP MADE IN EUROPE INTEL RILANCIA
Le mosse nel Vecchio Continente del colosso dei semiconduttori, per superare l’empasse dell’industria globale. «Nuovi investimenti per produrli in casa», dice Tichelman, capo Emea. Italia in pole position. Negli Usa stanziati 20 miliardi
Viene chiamata la «tempesta perfetta per il silicio». La mancanza di una risorsa fondamentale come i microchip, i piccoli «cervelli» che animano tutto quanto di digitale ci circonda, è storia non recente, una rincorsa che da anni vede la domanda eccedere l’offerta. È su questa situazione che si è abbattuta la pandemia da Covid-19. Con la conseguente chiusura, o comunque rallentamento, di alcuni impianti. Ma soprattutto con una virata verticale delle abitudini di consumo. Si lavora e si studia da casa, i computer portatili sono diventati un bene primario, e così infrastrutture di rete e datacenter che sostengono questa impennata.
Il mercato dei microchip, da 433 miliardi di dollari nel 2020, è atteso da una crescita dell’8,4% nel corso dell’anno. Se vi è capitato di domandarvi perché la Playstation 5 è introvabile o perché Apple — il maggior acquirente di semiconduttori, con una spesa annuale da ben 60 miliardi — ha rimandato il lancio dell’iphone 12, la risposta è tutta qui. Mancano gli ingredienti.
I settori più esposti
Il settore più colpito è senz’altro quello automobilistico: da Ford a Nissan fino a Stellantis, la carenza di microchip — ce ne sono in media un centinaio a bordo di un’auto -— rallenta la produzione un po’ ovunque. «L’industria dei trasporti sta poi affrontando un cambiamento epocale verso l’utilizzo dell’elettrico, nuove tecnologie per i veicoli che richiedono molte più componenti elettroniche», spiega Maurits Tichelman, olandese, general manager di Intel per l’area Emea. Dal 5G alle lavatrici intelligenti, tutti i settori stanno correndo verso il digitale. «Ma l’arrivo della pandemia non era preventivabile, e ha mandato tutta la programmazione gambe all’aria», dice Tichelman.
Si corre ai ripari. Secondo alcuni studi, il cuore di telefoni, tv, semafori e macchine del caffè entro il 2030 sarà per l’80% in mano ad aziende asiatiche. L’americana Semiconductor Industry Association — di cui fanno parte Intel, Ibm, Amd, Nvidia e Qualcomm — ha scritto una lettera aperta al presidente Joe Biden per chiedere incentivi statali. All’inizio di marzo la Casa Bianca ha firmato un ordine esecutivo per revisionare tutta la supply chain. «Il popolo americano non dovrebbe mai affrontare la carenza di beni e servizi essenziali — ha detto Biden nell’occasione —. Non dovremmo fare affidamento su un Paese straniero per proteggere e provvedere alla nostra gente».
Così, nel «villaggio globale», la produzione di quanto è diventato essenziale torna a essere locale. Questo vale per gli Stati Uniti, dove Intel ha aperto con un investimento da 20 miliardi per due nuove sedi di produzione in Arizona. Ma anche per l’europa. «Supportiamo l’ambizione della Ue di avere in casa il 20% della produzione di chip, vogliamo creare un maggiore equilibrio geografico — conferma Tichelman — . A breve annunceremo investimenti anche nel nostro continente che riguarderanno una shortlist dei Paesi». Con l’italia che potrebbe essere a buon diritto presente.
La crisi dei microchip non ha una «data di scadenza», anzi. «Il 2021 sarà un anno cruciale, alla fine del quale capiremo meglio se siamo sulla strada corretta», dice il manager. La confusione legata alla pandemia non permette previsioni certe. «Di certo, il mondo è cambiato, ormai un computer per famiglia non basta», nota Tichelman.
Le priorità negli ultimi mesi sono cambiate, e così potrebbe accadere anche per i prezzi dell’elettronica di consumo. «Come Intel abbiamo già comunicato che non cambieremo la nostra politica dei prezzi, non sarebbe corretto», conclude il manager. Ma i giocatori in campo sono tanti e presto potremmo dover fare i conti con una minore disponibilità di smartphone e automobili. E dunque un possibile aumento del loro costo.