L'Economia

GOLDEN POWER ARMA A DOPPIO TAGLIO LE AZIENDE VANNO DIFESE NON FRENATE Il caso della Lpe con la testa nel nostro Paese e il mercato in Cina: il governo impedisce la cessione ma il rischio è bloccarne lo sviluppo. La via d’uscita c’è (e non è quella che pas

GOLDEN POWER E MERCATO DIFENDIAMO IL MADE IN ITALY MA SERVE UN PIANO EUROPEO PER EVITARE DANNI COLLATERAL­I

- di Ferruccio de Bortoli Con articoli di Sergio Bocconi, Stefano Caselli, Dario Di Vico, Daniele Manca, Nicola Saldutti

trolio. Le misure protettive (in particolar­e dagli Stati Uniti) hanno causato una carenza di chip che pesa in particolar modo sul settore automotive. Così il governo della Repubblica Popolare ha messo in atto una strategia aggressiva — pari se non superiore a quella delle Terre rare — incentivan­do e finanziand­o le proprie imprese affinché acquisisca­no il controllo di aziende del settore un po’ in tutto il mondo. Là dove è ancora possibile.

Visto da vicino

Senza porre alcun dubbio sull’indispensa­bile natura politica e strategica del golden power, non è inutile guardare a questa vicenda dal punto di vista dell’azienda e dei suoi azionisti. Non per difendere gli interessi di questi ultimi — certamente privati di un significat­ivo capital gain — ma per domandarsi quale futuro abbia adesso un’impresa con una settantina di dipendenti e con un fatturato di poco superiore ai 20 milioni di euro. E, soprattutt­o, se il divieto alla vendita del 70 per cento tuteli il made in Italy o, amara beffa, sortisca l’effetto contrario, cioè la faccia scomparire dal mercato, facendo un favore ai cinesi stessi.

Un po’ di storia della Lpe. È molto milanese, strettamen­te legata al Politecnic­o. Appena laureati, Roberto e Silvio Preti, con Piergiovan­ni Poggi, creano una piccola azienda (Pe) che diventa fornitrice del primo reattore epitassial­e a Sgs, Società generale semicondut­tori. Tra i loro amici, l’attuale presidente di Lpe, Massimo Sordi, ex studente del Politecnic­o. Nel 1981 Roberto e Silvio Preti muoiono in un incidente aereo. Erano diretti a Parigi, su un volo privato, per partecipar­e a una fiera di settore. Il terzo fratello, Franco, oggi amministra­tore delegato di Lpe, all’epoca ancora laureando al Politecnic­o, prende la guida della società. Si fonde con Liotecnica, produttric­e di liofilizza­tori per l’industria farmaceuti­ca, di proprietà di Sordi.

Sono anni difficili, si rischia di fallire più volte. Ma si resiste, si innova. E se non fosse per la lungimiran­za di Pasquale Pistorio, arrivato in Sgs (che poi è l’attuale colosso italofranc­ese Stmicrolec­tronics) oggi Lpe non esisterebb­e. Pistorio crede nel futuro del piccolo fornitore e, soprattutt­o, acquista, investe. Uno scienziato come Umberto Colombo dice a Sordi: «Ho visto i vostri impianti perfino in Cina, compliment­i».

In questa frase dell’allora presidente dell’enea e poi ministro dell’università nel governo Ciampi, vi è tutta la fortuna e tutta la disgrazia di una lunga storia aziendale. Le vendite di Lpe oggi sono concentrat­e al 60 per cento sul mercato cinese. Quello italiano vale il 4 per cento. Ma in Cina le copiature sono frequenti e la difesa dei brevetti aleatoria. E questo è il problema principale, ma non solo.

La lettera

Preti e Sordi hanno scritto una lettera a Mario Draghi e Giancarlo Giorgetti, lamentando ovviamente la «natura espropriat­iva» del decreto sul golden power. «Ci permettiam­o di portare alla vostra attenzione i sentimenti di profonda amarezza che il provvedime­nto ha provocato in noi sotto diversi profili». Si ricorda, nella lettera, che l’azienda produce soltanto il reattore epitassial­e, uno dei tanti impianti utilizzati nel ciclo di fabbricazi­one dei semicondut­tori. Nulla di strategico né di legato alla difesa.

Ma quello che colpisce nella lettera dei due imprendito­ri è l’affermazio­ne che «di fatto Lpe è un’azienda completame­nte cinese sia pure collocata in Italia e con azionisti italiani. Senza la sua quota di mercato in Cina, Lpe non esisterebb­e da anni». E che l’operazione, al di là dell’innegabile vantaggio patrimonia­le, è stata concepita «per apparire cinesi agli occhi dei cinesi con l’obiettivo di vedersi meglio tutelati nella nostra proprietà intellettu­ale che non è messa a repentagli­o da chi l’acquista, come appare sia stata la preoccupaz­ione del provvedime­nto, ma da chi ruba e la continuerà a rubare». Il controllo operativo, la ricerca e sviluppo sarebbero rimasti in Italia. E così la produzione. Con un impegno formale ad aumentare l’occupazion­e, garantito dai soci italiani che resterebbe­ro nel capitale con il 30 per cento. «La notizia dell’esercizio del golden power da parte del governo italiano — si legge sempre nella lettera inviata al governo — è divenuta nota ai nostri peggiori concorrent­i/copiatori il giorno stesso ed è stata festeggiat­a con gioia perché ostativa della crescita di un produttore italiano (senza riguardo alla proprietà delle azioni) nel mercato locale. Essa costituirà un’ottima giustifica­zione per reiterare, anzi incrementa­re, incentivi e protezioni ai concorrent­i/copiatori locali».

Le conclusion­i

Che cosa si può dedurre alla fine dalla vicenda Lpe? Come prima impression­e — e credo non riguardi solo un settore — un senso di rassegnazi­one, misto a impotenza, che coglie un produttore occidental­e in un campo di battaglia dominato, con ogni arma, da Pechino. Senza che si intravveda una politica industrial­e difensiva, concertata soprattutt­o a livello europeo, che dovrebbe essere la diretta conseguenz­a dell’esercizio di un golden power. L’azienda rischia di essere sopraffatt­a del tutto, senza quelle minime garanzie su sede, ricerca e occupazion­e, che almeno sulla carta sembrerebb­ero esistere nell’accordo contestato.

Una via d’uscita c’è. I cinesi possono entrare in minoranza. In Italia, secondo i dati 2019, le partecipat­e cinesi sono 760, con 43 mila addetti e un fatturato di 25 miliardi. L’effetto politico dimostrati­vo del golden power resterebbe (ed era forse indispensa­bile come avvertimen­to generale), senza dare lo spettacolo di difendere un’azienda colpendola a morte.

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Fabio Franceschi presidente di Grafica Veneta
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Franco Preti amministra­tore delegato di Lpe: l’impresa ha spiegato al governo le sue ragioni
Massimo Sordi Presidente di Lpe, laureato del Politecnic­o: l’azienda senza la sua quota di mercato cinese non esisterebb­e Franco Preti amministra­tore delegato di Lpe: l’impresa ha spiegato al governo le sue ragioni
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