GOLDEN POWER ARMA A DOPPIO TAGLIO LE AZIENDE VANNO DIFESE NON FRENATE Il caso della Lpe con la testa nel nostro Paese e il mercato in Cina: il governo impedisce la cessione ma il rischio è bloccarne lo sviluppo. La via d’uscita c’è (e non è quella che pas
GOLDEN POWER E MERCATO DIFENDIAMO IL MADE IN ITALY MA SERVE UN PIANO EUROPEO PER EVITARE DANNI COLLATERALI
trolio. Le misure protettive (in particolare dagli Stati Uniti) hanno causato una carenza di chip che pesa in particolar modo sul settore automotive. Così il governo della Repubblica Popolare ha messo in atto una strategia aggressiva — pari se non superiore a quella delle Terre rare — incentivando e finanziando le proprie imprese affinché acquisiscano il controllo di aziende del settore un po’ in tutto il mondo. Là dove è ancora possibile.
Visto da vicino
Senza porre alcun dubbio sull’indispensabile natura politica e strategica del golden power, non è inutile guardare a questa vicenda dal punto di vista dell’azienda e dei suoi azionisti. Non per difendere gli interessi di questi ultimi — certamente privati di un significativo capital gain — ma per domandarsi quale futuro abbia adesso un’impresa con una settantina di dipendenti e con un fatturato di poco superiore ai 20 milioni di euro. E, soprattutto, se il divieto alla vendita del 70 per cento tuteli il made in Italy o, amara beffa, sortisca l’effetto contrario, cioè la faccia scomparire dal mercato, facendo un favore ai cinesi stessi.
Un po’ di storia della Lpe. È molto milanese, strettamente legata al Politecnico. Appena laureati, Roberto e Silvio Preti, con Piergiovanni Poggi, creano una piccola azienda (Pe) che diventa fornitrice del primo reattore epitassiale a Sgs, Società generale semiconduttori. Tra i loro amici, l’attuale presidente di Lpe, Massimo Sordi, ex studente del Politecnico. Nel 1981 Roberto e Silvio Preti muoiono in un incidente aereo. Erano diretti a Parigi, su un volo privato, per partecipare a una fiera di settore. Il terzo fratello, Franco, oggi amministratore delegato di Lpe, all’epoca ancora laureando al Politecnico, prende la guida della società. Si fonde con Liotecnica, produttrice di liofilizzatori per l’industria farmaceutica, di proprietà di Sordi.
Sono anni difficili, si rischia di fallire più volte. Ma si resiste, si innova. E se non fosse per la lungimiranza di Pasquale Pistorio, arrivato in Sgs (che poi è l’attuale colosso italofrancese Stmicrolectronics) oggi Lpe non esisterebbe. Pistorio crede nel futuro del piccolo fornitore e, soprattutto, acquista, investe. Uno scienziato come Umberto Colombo dice a Sordi: «Ho visto i vostri impianti perfino in Cina, complimenti».
In questa frase dell’allora presidente dell’enea e poi ministro dell’università nel governo Ciampi, vi è tutta la fortuna e tutta la disgrazia di una lunga storia aziendale. Le vendite di Lpe oggi sono concentrate al 60 per cento sul mercato cinese. Quello italiano vale il 4 per cento. Ma in Cina le copiature sono frequenti e la difesa dei brevetti aleatoria. E questo è il problema principale, ma non solo.
La lettera
Preti e Sordi hanno scritto una lettera a Mario Draghi e Giancarlo Giorgetti, lamentando ovviamente la «natura espropriativa» del decreto sul golden power. «Ci permettiamo di portare alla vostra attenzione i sentimenti di profonda amarezza che il provvedimento ha provocato in noi sotto diversi profili». Si ricorda, nella lettera, che l’azienda produce soltanto il reattore epitassiale, uno dei tanti impianti utilizzati nel ciclo di fabbricazione dei semiconduttori. Nulla di strategico né di legato alla difesa.
Ma quello che colpisce nella lettera dei due imprenditori è l’affermazione che «di fatto Lpe è un’azienda completamente cinese sia pure collocata in Italia e con azionisti italiani. Senza la sua quota di mercato in Cina, Lpe non esisterebbe da anni». E che l’operazione, al di là dell’innegabile vantaggio patrimoniale, è stata concepita «per apparire cinesi agli occhi dei cinesi con l’obiettivo di vedersi meglio tutelati nella nostra proprietà intellettuale che non è messa a repentaglio da chi l’acquista, come appare sia stata la preoccupazione del provvedimento, ma da chi ruba e la continuerà a rubare». Il controllo operativo, la ricerca e sviluppo sarebbero rimasti in Italia. E così la produzione. Con un impegno formale ad aumentare l’occupazione, garantito dai soci italiani che resterebbero nel capitale con il 30 per cento. «La notizia dell’esercizio del golden power da parte del governo italiano — si legge sempre nella lettera inviata al governo — è divenuta nota ai nostri peggiori concorrenti/copiatori il giorno stesso ed è stata festeggiata con gioia perché ostativa della crescita di un produttore italiano (senza riguardo alla proprietà delle azioni) nel mercato locale. Essa costituirà un’ottima giustificazione per reiterare, anzi incrementare, incentivi e protezioni ai concorrenti/copiatori locali».
Le conclusioni
Che cosa si può dedurre alla fine dalla vicenda Lpe? Come prima impressione — e credo non riguardi solo un settore — un senso di rassegnazione, misto a impotenza, che coglie un produttore occidentale in un campo di battaglia dominato, con ogni arma, da Pechino. Senza che si intravveda una politica industriale difensiva, concertata soprattutto a livello europeo, che dovrebbe essere la diretta conseguenza dell’esercizio di un golden power. L’azienda rischia di essere sopraffatta del tutto, senza quelle minime garanzie su sede, ricerca e occupazione, che almeno sulla carta sembrerebbero esistere nell’accordo contestato.
Una via d’uscita c’è. I cinesi possono entrare in minoranza. In Italia, secondo i dati 2019, le partecipate cinesi sono 760, con 43 mila addetti e un fatturato di 25 miliardi. L’effetto politico dimostrativo del golden power resterebbe (ed era forse indispensabile come avvertimento generale), senza dare lo spettacolo di difendere un’azienda colpendola a morte.