Più donne nei cda Ma manca la squadra
Con la legge Golfo-mosca la presenza femminile è balzata dal 5,9 al 37%. Un completo successo? Indagine Bocconi: solo in alcuni casi sono state registrate azioni di pressione e di spinta da parte delle consigliere...
Oggi si può dire: l’obiettivo è stato centrato. Secondo il rapporto 2020 sulle società quotate, le donne nei board sono salite al 37%. Erano il 5,9% nel 2008, prima dell’entrata in vigore della legge Golfomosca. Ora il punto è: le donne al vertice sono riuscite a incidere e ad aprire le mentalità aziendali alla diversity? Quantomeno ci hanno provato? Si tratta di domande tanto semplici quanto necessarie. Una cosa è certa: il cambiamento delle organizzazioni sui temi della «diversità e inclusione» è molto, molto lento. Non c’è un’indagine che non lo confermi. Prendiamo il Global gender gap index del World economic forum: ad abbassare le performance dell’italia sono proprio gli indicatori legati all’economia e al lavoro, dove ci piazziamo in fondo alla classifica, al 117 posto su 156 Paesi. Per dire, rispetto all’equità salariale siamo al 125esimo posto. Le dirigenti donne sono aumentate molto in questi anni, addirittura del 48% in dieci anni, ma si partiva da livelli così bassi che oggi ci fermiamo comunque a 18 donne ogni 100 dirigenti.
Da notare, la figura del manager negli organigrammi aziendali in questi anni è cambiata molto, l’aumento dell’impegno, delle responsabilità e della flessibilità richieste non sempre è andato di pari passo con un miglioramento dello status sociale.
Le difficoltà
Il 37% di donne nei board delle quotate è un dato talmente positivo da risultare un po’ l’eccezione che conferma la regola. Non appena si scava sotto la superficie dei numeri — come ha fatto l’osservatorio su diversità, inclusione e smart working della Sda Bocconi in collaborazione con Valore D e la sponsorship di Generali, Mckinsey & Company — allora le difficoltà tornano di nuovo a essere evidenti.
La ricerca ha indagato in profondità i punti di vista e le esperienze delle donne nei cda per cercare di capire le ragioni dell’asimmetria tra l’impulso dato dalla Golfo-mosca e la lentezza con la quale si sta osservando un cambiamento nelle organizzazioni su «diversità e inclusione». Per la precisione, sono state intervistate 100 donne consigliere (esecutive, indipendenti, sindaco), 34 uomini (amministratori delegati e/o presidenti in società in cui è stata applicata la legge) e quattro opinion leader (giornalisti, membri di istituzioni). «Il nostro obiettivo è stato capire se, grazie all’ingresso delle donne, il tema della parità di genere sia stato portato all’attenzione del dibattito consiliare, e se l’eventuale presa in carico del tema da parte del cda possa generare un effetto a cascata sull’organizzazione», spiega Simona Cuomo, coordinatrice dell’osservatorio diversità, inclusione e smart working di Sda Bocconi.
Alla fine il risultato è che «solo in alcuni casi sono state registrate azioni di pressione e di spinta da parte delle consigliere — dice la sintesi della ricerca —. In altri i tentativi sono stati blandi e sporadici o addirittura assenti».
Molti ricorderanno che quando venne varata la legge le aspettative erano alte. «Le donne al vertice faranno da apripista ad altre donne», si diceva.
Diverse organizzazioni femminili si mobilitarono per stilare elenchi di donne con curriculum all’altezza dei più prestigiosi cda. Che cosa non ha funzionato? La risposta più semplice è questa: le strategie di gestione del personale nella maggioranza delle aziende sono lasciate all’amministratore delegato. E se è vero che le donne nei board sono arrivate a quota 37%, è altrettanto vero che le amministratrici delegate si fermano al 2%.
Le relazioni
Secondo intervistate e intervistati, è fondamentale l’alleanza con amministratore delegato e direttore risorse umane. «Per convincere l’amministratore delegato devi fare squadra», sottolinea una delle intervistate (le risposte sono state date sotto garanzia di anonimato). «L’apertura di un dialogo col management e la struttura può garantire una presa in carico sostanziale del tema», aggiunge una seconda, evidenziando l’importanza del fare rete.
Una figura centrale è quella del presidente. «Può decidere i temi all’ordine del giorno, accogliendo o meno le richieste dei consiglieri, e può incoraggiare una discussione in seno ai comitati. È inoltre l’interlocutore principale del ceo al quale può veicolare urgenza o attenzione rispetto alla rilevanza del tema “diversità e inclusione”»,dice Barbara Falcomer, Valore D.
Per le donne non è stato sempre facile esprimersi sulla parità di genere sia per il limitato grado di libertà di azione percepito dentro il cda, sia per la necessità di acquisire credito in un contesto che, soprattutto nei primi mandati, rendeva la presenza delle donne una sorta di obbligo da espletare facendole sentire «fuori posto». Molte poi, in quanto donne, hanno temuto che fosse troppo autoreferenziale da parte loro introdurre l’argomento «diversità e inclusione».
Alla fine una spinta importante alle politiche legate alla diversity è arrivata grazie all’obbligatorietà della Dichiarazione non finanziaria e grazie alla pressione di investitori istituzionali e stakeholder sui temi Esg (ambiente, impatto sociale, governance). Diversità, inclusione e parità di genere sembrano in questi ultimi anni acquisire maggiore attenzione da parte dei cda. I meccanismi del mercato rischiano di dimostrarsi più efficaci delle leggi.