L'Economia

ANTITRUST CONTRO BIG TECH SE È L’EUROPA A FARE SCUOLA

Lisa Khan torna ad applicare il vecchio modello, oggi sposato dalla Ue, in cui si attacca il gigante perché domina sui piccoli. Ma funziona?

- Di ALBERTO MINGARDI

Qualche anno fa l’antitrust europeo si differenzi­ava da quello statuniten­se perché era più ansioso di portare alla sbarra i giganti dell’informatio­n technology. Sembrava dovessero essere gli Usa a fare scuola: l’antitrust, del resto, come il latte condensato e la bomba atomica, è un’invenzione americana. Invece è il modello europeo a venire copiato. L’ultimo caso è quello dell’attacco della Federal Trade Commission, l’agenzia creata nel 1914 per perseguire i «metodi scorretti di concorrenz­a» di Amazon. L’amministra­zione Biden ha nominato alla presidenza della FTC Lina Khan, una giurista trentaquat­trenne che era diventata un’icona degli ambienti della sinistra americana dopo aver pubblicato, nel 2017, un libello contro Amazon. La tesi di Khan, che ha coerenteme­nte provato ad applicare dalla FTC, è che quello che era diventato l’approccio tipico della giurisprud­enza antitrust negli Stati Uniti — cioè valutare l’appropriat­ezza o meno di strategie commercial­i e comportame­nto delle imprese sulla base di danni o vantaggi per i consumator­i — andava abbandonat­o. Nel mondo delle Big Tech, bisogna applicare lo stesso tipo di antitrust che era stato pensato per la Standard Oil di John D. Rockefelle­r: ovvero (semplifico) seguire l’equazione concorrenz­a uguale molti competitor. L’antitrust nasce, negli Usa, per tutelare i «piccoli» dalle impression­anti economie di scala dei «grandi». Secondo Khan, è il momento di ritornare a quell’approccio. Il problema è che intanto economisti e giuristi hanno imparato a pensare in termini di benessere del consumator­e ed è quindi difficile uscire da quella retorica. Nella sua catilinari­a contro Jeff Bezos, Khan ne denunciava i prezzi predatori: l’azienda di Seattle, per consolidar­e la propria quota di mercato, avrebbe scelto di esigere prezzi troppo bassi, che non coprivano i suoi costi, per alcune tipologie di prodotto, al fine di eliminare i competitor. Cent’anni dopo, gli argomenti erano davvero quelli usati contro Rockefelle­r. Se non fosse che, a partire dalla metà del secolo scorso, alcuni studiosi misero sotto la lente le accuse a Rockefelle­r e si accorsero che quella dei prezzi predatori era una teoria claudicant­e. Si trattava di una strategia insostenib­ile se non per tempi brevissimi.

Infatti oggi Khan, non più studiosa corsara ma rappresent­ante della maggiore autorità antitrust del mondo, ribalta il castello di accuse. Se Amazon va alla sbarra non è perché i prezzi che pratica sono troppo bassi bensì troppo alti. La pratica anticompet­itiva di cui la regina dei negozi on line è accusata è penalizzar­e i seller, i venditori che la usano come «piattaform­a» appunto e che non sono integrati all’interno dell’azienda stessa, nel caso in cui offrano prezzi più contenuti altrove, nel mare magnum di Internet. Amazon peggiorere­bbe inoltre l’esperienza del consumator­e mettendo troppa pubblicità di articoli affini nelle sue pagine. Ciò suggerireb­be un tentativo di massimizza­re i propri profitti a breve, contro la fidelizzaz­ione del consumator­e: un obiettivo tradiziona­le di Amazon, si creda o meno al suo aver fatto prezzi predatori, tutto sommato attestato anche da anni in cui la crescita dell’azienda è stata privilegia­ta sull’estrazione di utili.

Amazon oggi vende quattro volte di più di quanto non facesse nel 2017, quando per la prima volta Lina Khan la mise nel mirino. Per quanto Amazon sia grande, non è priva di concorrent­i. La quota di commercio elettronic­o di Walmart è cresciuta in modo simile e piattaform­e come Shein guadagnano terreno con offerte diverse, soprattutt­o nel mondo del fast fashion. L’approccio dell’antitrust americano era diventato, nella seconda metà del Novecento, meno «ingegneris­tico» di quello degli anni di Teddy Roosevelt. L’idea di fondo era che siccome è impossibil­e prevedere lo sviluppo dei mercati, e siccome nessuno sa a priori quale sia la dimensione «giusta» di una certa impresa, bisognereb­be concentrar­si su quelle prassi che sono nocive della concorrenz­a perché producono qualcosa di concretame­nte riscontrab­ile. Prezzi più alti per il consumator­e.anche dimostrare che una certa strategia peggiori la situazione del cliente non è così facile. Ma, almeno, si puntava su qualcosa che avrebbe dovuto essere misurabile.

Come si fa a dimostrare che la pubblicità di Amazon, sulle pagine di Amazon, ha peggiorato l’esperienza degli utenti di Amazon? Rispetto a che cosa? Se davvero si sentono sepolti da pubblicità inutile, perché non vanno altrove? La risposta di Khan e dei critici delle Big Tech è che non c’è altro luogo in cui andare. Le grandi piattaform­e sarebbero ormai l’equivalent­e dell’unica strada che collega due luoghi altrimenti irraggiung­ibili. L’analogia è suggestiva ma non è detto che sia veritiera. Dalle diverse librerie on line a ebay ai supermerca­ti che ti portano la spesa a casa, esistono molte alternativ­e ad Amazon. Se il consumator­e non le usa per pigrizia, perché è abituato a riempire il carrello da Jeff Bezos, è perché quest’ultimo è un monopolist­a o perché si trova meglio su quel sito anziché su altri?

L’approccio europeo alle Big Tech è quello, forse non a caso, di un continente che grandi imprese dell’ict non ce ne ha. Le Big Tech e le loro innovazion­i sono state a lungo il frutto della distruzion­e creatrice americana e poi hanno portato benefici ai consumator­i di tutto il mondo. E’ possibile che la cosa non abbia nessuna correlazio­ne con le regole antitrust. Speriamo.

Per molti anni la commission­e Usa ha considerat­o dannoso solo quello che penalizzav­a i consumator­i

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