MODA, TRA BRAND E FUSIONI CHI FA BELLO IL MADE IN ITALY
Globalizzazione e acquisizioni da parte dei big stranieri hanno messo alla prova strutture e strategie delle pmi Alcune hanno risposto con lo shopping. La capacità di affermare marchi ed efficienza della catena produttiva non manca. Le storie di Manteco,
Doppiata la boa dei risultati pre-covid del 2019 nel 2022 il settore tessile e sistema moda ha veleggiato più stabile e veloce superando quei 108 miliardi che lo posizionano in termini di valore aggiunto al terzo posto nella manifattura italiana, dopo metalmeccanica e comparto industriale dell’agroalimentare e al secondo per avanzo della bilancia commerciale con un saldo positivo fra export ed import di 35 miliardi.
Emblema del made in Italy, ha subito negli ultimi decenni un cambiamento radicale sulla spinta di molteplici fattori: globalizzazione in primis anche crescita dell’egemonia dei gruppi mondiali, indebolimento dell’identità dei distretti specialistici nazionali, nuovi format di consumo e distributivi. Una rivoluzione che ha inciso maggiormente sul nostro tessuto industriale fatto di piccole imprese, più esposte in termini di forza competitiva sui mercati. L’indagine sulle imprese Champions, che identifica ogni anno le 1000 migliori pmi italiane, a cura di Italypost e l’economia del Corriere della Sera, mette in risalto le Top 50 del Tessile e Sistema moda. A oggi diverse imprese del panel, presentato in marzo, hanno cambiato struttura sulla scia di trend dominanti : acquisite dai grandi gruppi globali, da fondi di private equity, accorpate e aggregate in poli(come il
gruppo Florence) e poi acquisite anche in questo caso da fondi (stranieri).
L’eccellenza della produzione nell’alto di gamma (l’italia è il primo paese al mondo per la concentrazione di manifatture in questo segmento) ha spinto i grandi player esteri, soprattutto francesi, ad integrare verticalmente buona parte dei propri fornitori, dalla materia prima (ad esempio le concerie) fino al prodotto finito, in un trend che se da un lato consente la conservazione sul territorio di un know how di altissimo valore, dall’altro pone il problema della progressiva indisponibilità di competenze di questo tipo a favore delle imprese e dei gruppi nazionali. In questo orizzonte brillano ancora imprese come
Manteco, tessuti di alta gamma per il luxury e 100 milioni di fatturato nel 2022, uno degli ultimi presidi del tessile nel pratese diventato l’hub produttivo cinese in Italia, che tiene ben salde le redini di una filiera efficiente, con la creazione di una rete di fornitori strategici e con il presidio di tutto il processo e la catena di approvvigionamento. O come Leo France, produttore fiorentino di accessori per i big del luxury, fatturato a 200 milioni con un balzo del 39% sul 2021 ed un’ebitda margin del 31%.
Chi punta (e vince) sul brand sono imprese come
Liu Jo, che sfiora i 500 milioni di fatturato, unica fra le 50 top, Morellato, 392 milioni che diventano 780 con il closing a gennaio 2023 dell’acquisizione della catena tedesca Christ con 206 negozi o Peserico, che consolida 88 milioni grazie al retail diretto, diviso fra boutique di proprietà e negozi plurimarca in Italia e ad una quota in crescita negli Usa. Forte accelerazione nello sportsystem, sia nell’abbigliamento (Basicnet, 385 milioni, o Valcismon a 132) che nelle calzature, dove troviamo La Sportiva con 217 milioni (+37%) e Calzaturificio Scarpa con 169 milioni (+26%), leader globali nella nicchia della calzatura da montagna. La crescita dimensionale, che non può prescindere da quella per linee esterne, resta uno degli obiettivi più importanti, soprattutto nel lungo termine, per evitare di disperdere il potenziale di una delle eccellenze del nostro sistema economico.