GLOBALIZZAZIONE 2.0 È L’ORA DEGLI SPECIALISTI
Catene produttive regionali e mercato unico, una scelta obbligata
Abbiamo conosciuto, esaltato, ringraziato la globalizzazione degli ultimi 30 anni, che ha avuto due effetti positivi sul sistema economico globale: il primo, la riduzione del tasso di povertà, grazie al fatto che Paesi precedentemente esclusi dai flussi del commercio (se non come esportatori di materie prime i cui proventi raramente rimanevano nelle mani di chi aveva estratto o raccolto) hanno iniziato a far parte di catene del valore internazionali, sottoposte a maggior controllo e rigore. Il secondo, la riduzione dei costi di produzione, conseguenza di una gigantesca e globale specializzazione del lavoro e del grande supermercato dei beni di investimento e delle materie prime che ha permesso di scegliere dallo scaffale il bene a minor costo, dovunque esso fosse prodotto, estratto o raccolto. Una logistica più efficiente ha ridotto le barriere fisiche, e lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha permesso ad aziende lontane tra loro di entrare in contatto per il mutuo beneficio.
Una pandemia e due guerre dopo, il termine globalizzazione viene sostituito da frammentazione e lo sviluppo economico viene subordinato alla sicurezza nazionale. L’ambizione diventa quella di commerciare non più con il Paese dove c’è il maggior beneficio economico, ma con quello maggiormente allineato dal punto di vista geopolitico. Un esempio è l’interscambio tra la Russia e i Paesi confinanti: tra il primo semestre del 2019 e il primo semestre del 2023 è crollato l’export dei Paesi confinanti con la Russia e appartenenti all’ue (Finlandia, Polonia, Lituania, Estonia), mentre è cresciuto quello dei Paesi confinanti non Ue: Armenia, Cina, Kazakhistan tra tutti. Le differenze sono marcate: +100% per la Cina in 4 anni; -80% per la Finlandia. Da tempo, il Fondo monetario mette in guardia sui rischi di una frattura strutturale del commercio, rischi associati a una crescita economica globale più bassa e un’inflazione strutturalmente più alta per l’aumento dei costi di produzione conseguenti a una non ottimale divisione del lavoro. Ma bisogna essere realisti, non rimpiangere il bel tempo che fu della grande globalizzazione e aspettare che ritorni. Piuttosto, prendere atto dell’evoluzione verso una globalizzazione 2.0 e guardare alle opportunità. La globalizzazione 2.0 ha al centro quattro trasformazioni: la prima, non tutti i Paesi sono uguali, alcuni sono più vicini (geograficamente e politicamente) di altri. Le barriere geografiche hanno mostrato di essere ancora rilevanti a causa di guerre, pandemie, ma anche per il cambiamento climatico che rende alcune tratte (canale di Panama) non percorribili come un tempo. Le vicinanze politiche ci sono sempre state, ma l’invasione dell’ucraina ha ricreato la logica dei blocchi. La seconda trasformazione riguarda la Cina: per quasi 30 anni è stata la manifattura a basso costo del mondo, ma questo ruolo si sta esaurendo sia per l’invecchiamento della popolazione cinese, sia per l’aumento dei salari degli operai, che ormai sono abbondantemente superiori a quelli dei Paesi a noi limitrofi del bacino mediterraneo. La terza trasformazione riguarda la transizione ecologica e digitale, che porta a ripensare cosa produciamo e come lo facciamo, dando rilevanza molto maggiore che in passato al controllo della filiera produttiva.
La quarta trasformazione è la dipendenza sempre più marcata dalle materie prime dell’europa, soprattutto quelle essenziali per le transizioni digitale e green, in particolare quando l’estrazione e la produzione è concentrata in pochi paesi extra Ue.
A fronte di questi cambiamenti, i Paesi europei hanno una scelta quasi obbligata: completare il mercato unico e sviluppare catene produttive regionali. La maggiore integrazione dei mercati faciliterebbe la specializzazione produttiva, spingerebbe l’innovazione incrementando la produttività e dunque conterrebbe il rialzo dei prezzi che deriva dalla frammentazione degli scambi globali. Dalla creazione di catene del valore strategiche europee attraverso produzioni multinazionali che coinvolgano non soltanto i Paesi dell’unione, ma anche quelli geograficamente e politicamente vicini, l’italia avrebbe da guadagnare. Intanto per la posizione geografica, in quanto il Mediterraneo potrebbe diventare sempre più un mare di scambio e non solo di transito, se si riuscirà ad includere i Paesi della sponda sud ed est nelle catene del valore europee. Poi per la possibilità di essere ponte tra l’assemblatore finale dell’europa continentale (o il capo filiera) e i produttori di beni intermedi a basso costo delle sponde est e sud del Mediterraneo, sfruttando la capacità innovativa e di internazionalizzazione delle nostre medie imprese. L’alternativa è che, a fronte delle sfide della globalizzazione 2.0, l’europa vada in ordine sparso o abbia come unico strumento di risposta quello della chiusura e delle barriere tariffarie.
* Capo economista e direttore Strategie settoriali e impatto Cdp
Il Mediterraneo potrebbe diventare un mare di scambio, non solo di transito