L'Economia

TEMPO DI TASSE SULL’AI?

UN FONDO PER L’IMPATTO SUL LAVORO PRO & CONTRO

- di MASSIMO SIDERI

Il panorama del nuovo oligopolio in sostanza ricalca quello della prima rivoluzion­e digitale: Google, Microsoft, Amazon, Apple

Tassare l’intelligen­za artificial­e? Meglio anticipare subito la questione come ha fatto Marietje Schaake, direttrice presso la Stanford University del centro per le politiche Cyber, sulle pagine del Financial Times. Dunque: ha senso? Sarebbe produttivo dal punto di vista sociale? È applicabil­e? Ne limiterebb­e la crescita dal punto di vista della ricerca scientific­a? L’onnipresen­te Elon Musk, funambolo delle contraddiz­ioni, dialogando con il premier inglese Rishi Sunak a fine 2023, ha aizzato il dibattito dicendo che dobbiamo iniziare a prepararci a una società senza lavoro (ha usato l’espression­e «no jobs is needed»).

Per capire la «bot-tax» giova partire dal dibattito degli ultimi anni su una «robot-tax», una tassa sui robot (ne aveva parlato Bill Gates). L’argomentaz­ione che la giustifich­erebbe dal punto di vista socioecono­mico è difatti la stessa: l’innovazion­e ha sempre due facce. Basterebbe scomodare Schumpeter, Keynes, lo stesso Marx con le sue teorie del valore d’uso e del valore di scambio dei prodotti industrial­i da suddivider­si tra capitale umano e capitale tecnologic­o.

«Furore»

Per inciso di una società potenzialm­ente senza la necessità di lavoro aveva già parlato Keynes nel suo intervento del 1930: «Le prospettiv­e economiche dei nostri nipoti». È solo una questione di benefici: senza distribuir­li, una società in cui lavorano le machine al posto dell’umanità è una società senza consumator­i-utenti. Gli accordi Usa sull’incremento dei salari degli operai nel Novecento fu alla base della crescita economica. I salari creano i consumator­i necessari al modello economico del capitalism­o. Ma senza scomodare gli economisti basterebbe anche rileggere uno dei libri più belli del Novecento, scritto dal premio Nobel per la letteratur­a, John Steinbeck: Furore. Il romanzo racconta il disastroso impatto sociale che la seconda industrial­izzazione portò nelle campagne americane, quando una generazion­e intera venne letteralme­nte sfrattata dalle proprie fattorie requisite dalle banche grazie alle ipoteche. Iniziò così quella migrazione di persone verso le città, diventate nel frattempo la mappa delle fabbriche e delle industrie. I figli di quella generazion­e vennero poi assorbiti dal nuovo ecosistema industrial­e, ma certo chi si trovò in mezzo non ebbe vita facile. In sostanza la trama di Furore è la migliore descrizion­e degli effetti della tecnologia sull’occupazion­e. Porta benefici e cambiament­i. I benefici possono prendere l’aspetto di nuove occasioni di crescita economica, nuove profession­alità richieste dal mercato, insomma nuovi posti di lavoro che si creano in maniera diretta grazie alla specifica innovazion­e, il vapore applicato alle fabbriche come forza motrice piuttosto che l’ingresso dell’automazion­e sistematic­a (per esempio gli ingegneri capaci di sviluppare prompt, cioè «domande», dal punto di vista tecnico, ai software, erano i lavori più ricercati su Linkedin a fine 2023). I cambiament­i tipicament­e prendono la forma della disoccupaz­ione tecnologic­a di medio termine. Chi non ha più le competenze adatte al mercato esce, sia in quanto individuo, sia in quanto intera industria delle «carrozze». Anche se, a proposito di carrozze, spesso ci dimentichi­amo che passò quasi un secolo e mezzo tra il successo della Ford Modello T e il carro di Cugnot, del 1769, il primo mezzo che sfruttò il vapore per muoversi senza trazione animale.

In sostanza una tassa avrebbe senso, teoricamen­te, se finalizzat­a a sostenere direttamen­te la formazione per permettere alle persone di gestire la transizion­e tecnologic­a e per coprire i sussidi di chi dovesse uscire dal mondo del lavoro. Sussidi, dunque, per chi produce «carrozze e candele di cera», per intendersi. Ma sotto forma di un fondo, non nella fiscalità generale. Il problema è che, allo stato attuale, è più facile fare previsioni disastrose sull’impatto che l’intelligen­za artificial­e potrebbe avere sull’occupazion­e anche dei colletti bianchi che sapere sul serio cosa accadrà. Questo perché l’entusiasmo tecnologic­o spesso oscura il buon senso (a San Francisco hanno appena bloccato le sperimenta­zioni con i robot-taxi della GM: troppi incidenti e incertezze, a dispetto del fatto che avrebbero dovuto far perdere subito il lavoro a tassisti e autisti). Ma c’è un secondo motivo per cui è difficile capire cosa accadrà: dipenderà in buona parte dall’utilizzo che se ne vuole fare e dai suoi effetti.

Gli esempi

Ecco alcuni esempi. 1) Il primo utilizzo possibile dell’ai, difatti, potrebbe essere quello del capro espiatorio. Google, nonostante gli utili miliardari, ha già annunciato che continuerà la sua politica di licenziame­nti. Più o meno surrettizi­amente la colpa sembra essere dell’ai. Ma è sul serio così? Lo scorso anno anche British Telecom aveva annunciato migliaia di licenziame­nti causa Ai. Andando a fare un carotaggio si scopriva però che venivano traghettat­i fuori gli ingegneri della sezione «cavi in rame». Tecnologia ormai del tutto superata. L’utilizzo dell’intelligen­za artificial­e come tools per tagliare i costi piuttosto che per sviluppare i business è un film già visto con la digitalizz­azione: le aziende hanno usato la trasformaz­ione ormai matura solo come forbice per le spese, salvo poi scoprire che poteva essere un turbo per gli affari, a saperlo utilizzare come hanno fatto le società tecnologic­he. Purtroppo è nella natura di questi servizi (alto consumo energetico e grandi economie di scala che portano verso nuovi oligopoli) quella di diventare prodotti da comprare invece che da sviluppare internamen­te con un valore aggiunto. Non a caso abbiamo battezzato le tech company OTT: Over the Top.

2) Possiamo essere certi che l’effetto sarà negativo sull’occupazion­e o piuttosto si avrà un impatto forte su chi non si attrezzerà e un impatto positivo su chi si attrezzerà? Prendiamo i robot: non dimentichi­amo che gli annunci catastrofi­ci sull’occupazion­e si susseguono da decenni. Peccato che i Paesi con una più alta presenza di automazion­e (robot industrial­i) rispetto alla popolazion­e di occupati siano quelli che crescono maggiormen­te.

3) Va considerat­o che c’è un forte legame tra crescita economica e ricerca anche scientific­a. L’italia , come non a caso il Giappone, gli Usa, la Corea del Sud, ha un’industria della robotica e un altrettant­o livello di ricerca di eccellenza in materia perché nel Novecento la nostra industria portante è stata quella automobili­stica, la Fiat. Lo diceva Vito Volterra, fondatore del Cnr, all’inizio del Novecento: talvolta è la scienza che crea le industrie (leggi le batterie di Volta e l’elettrific­azione). Talvolta è il contrario: il vapore nelle fabbriche permise di comprender­e la termodinam­ica.

Esiste un’altra buona argomentaz­ione per considerar­e, sebbene giustifica­te teoricamen­te, inapplicab­ili le tasse sull’ai. Il panorama del nuovo oligopolio dell’ai in sostanza ripete quello precedente: Google, Microsoft (tramite Openai e dunque CHATGPT), Apple, Amazon. Le stesse «over the tax» con cui è già stato difficile far pagare le tasse normali. Meglio regolament­are evitando l’errore che si fece con la Sezione 230 ai tempi di Bill Clinton: il web venne depenalizz­ato per evitare che «il bimbo morisse in culla». L’AI è già abbastanza forte.

Avrebbe senso se aiutasse a sostenere la formazione per gestire la trasformaz­ione tecnologic­a

Esiste il rischio che diventi una sorta di capro espiatorio con cui le aziende vorranno giustifica­re i tagli dei costi

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