GLI USA SONO ANCORA IL MOTORE DEL MONDO E L’ITALIA NE BENEFICIA
Ci sono tre ragioni dietro alla vitalità del sistema americano: la crescita economica, il mercato dei capitali e la concentrazione di aziende tecnologiche. Tutte partite su cui l’europa è rimasta indietro. Ma l’industria del nostro paese, che punta molto sull’export e tenta di innovare, può sfruttare la forza che viene da Oltreoceano
L’economia continua a cambiare, sia sotto il profilo dei Paesi trainanti che dell’evoluzione dei singoli settori. Ma il motore resta sempre quello: gli Stati Uniti. Un semplice dato su tutti serve a fare capire quello che sta accadendo. Nei giorni scorsi la capitalizzazione del mercato azionario statunitense ha superato i 51 mila miliardi di dollari, secondo l’indice Bloomberg. Una cifra impressionante se si confronta con l’andamento degli altri listini e dei pil mondiali. Tre sembrano essere le ragioni principali di questa straordinaria vitalità. La prima è sicugiochi. ramente la crescita Usa alimentata da consumi, produttività ed export. La Bidenomics, come viene chiamata la politica sostenuta dall’attuale presidente, significa la costruzione dell’economia dal centro verso l’esterno e dal basso verso l’alto. Questo significa fare investimenti intelligenti, formare i lavoratori per ricreare la classe media e infine promuovere la concorrenza per ridurre i costi e aiutare le piccole imprese.
La seconda è lo sviluppo differenziale del mercato dei capitali. La terza, forse la più significativa, è la forte concentrazione di aziende tecnologiche e in particolare delle «sette sorelle»: Apple, Microsoft, Amazon, Nvidia, Tesla, Meta e Alphabet. Da sole capitalizzano qualcosa come 12,5 trilioni di dollari. Una cifra che rappresenta l’11% del valore globale del mercato azionario e il 50% del listino del Nasdaq. Un peso forse eccessivo. Ed è proprio per questo che l’amministrazione Usa sta cercando di regolare queste aziende.
Le dimensioni
La loro capitalizzazione fa impressione se si compara con alcuni dei valori massimi raggiunti 15/20 anni fa da banche, giganti del petrolio o imprese tecnologiche come General Electric, AT&T o Ibm. Le capitalizzazioni astronomiche di Alphabet (1.790 miliardi), Apple (2.088 miliardi), Amazon (1.750 miliardi) miliardi), Microsoft (3.020 miliardi) e Nvidia (1.680 miliardi) Tesla (570 miliardi), Meta (1.190 miliardi) nascono dalla loro capacità di crescere puntando tutto sull’innovazione, senza avere la necessità di ingente capitale fisso.
E le big tech non mancano mai di stupire. Lo hanno fatto anche nell’ultima tornata di risultati trimestrali, battendo le aspettative sul fronte degli utili e promuovendo una politica di taglio dei costi che si è concretizzata in una riduzione del personale. È il caso di Microsoft, che dopo aver superato i 3 mila miliardi di dollari di capitalizzazione, ha comunicato di voler eliminare il 9% della forza lavoro della divisione videorilevanti. Tradotto in dipendenti, significa 1.900 persone in meno. Anche Amazon e Google pensano a licenziamenti: per il colosso dell’e-commerce riguarderanno alcune centinaia di dipendenti di Prime Video e Mgm Studios mentre il gigante di Mountain View taglierà circa mille posti nello staff engineering. Che cosa vuol dire tutto questo? Che il sistema industriale Usa è in perenne movimento e un’europa senza idee e parassitaria è incapace di seguire quest’evoluzione. Da questo lato dell’atlantico non esistono aziende tecnologiche quotate di dimensioni Tra le poche brilla Asml che capitalizza 330 miliardi di euro con 8,2 profitti e Sap che ne capitalizza oltre 200 con circa quattro di utili. Il vecchio Continente è rimasto indietro e sta perdendo la partita anche rispetto a quei Paesi che hanno saputo cavalcare la trasformazione. L’economia europea è ferma sia sotto il profilo dei processi che della produzione. Emblematico è il caso delle acciaierie dell’ilva o la stessa vicenda, smentita da John Elkann, circa le ipotesi di un consolidamento nel settore automotive, con scenari di fusione tra Stellantis e Renault, per resistere alla concorrenza che arriva da Tesla e dalle case orientali.
Ma forse l’esempio più lampante sono le battaglie agricole scoppiate in questi giorni. Per fermare le proteste e i blocchi dei trattori, la presidente della Commissione europea ha deciso di ritirare la proposta di regolamento sui pesticidi e di continuare a fornire sussidi agli agricoltori che si lamentavano contro la norma che impone di tenere il 4% dei terreni incolti.
Certo i contadini hanno le loro ragioni. In un mondo afflitto dall’inflazione lavorare con costi in crescita e vendere a prezzi bloccati è quasi impossibile. Nessuno mette in discussione la centralità del settore agricolo ed è anche evidente che nella filiera del valore la parte di cui si appropria la distribuzione è molto superiore a quella che viene pagata alla produzione. Nello stesso tempo gli agricoltori devono rendersi conto che il mondo è cambiato. Anche perché l’europa non può continuare a sostenere soggetti che non sanno adeguarsi all’evoluzione.
La rivoluzione
La rivoluzione industriale è iniziata due secoli fa quando il sistema cominciò a produrre in serie prodotti meccanici e agricoli. Un profondo cambiamento che coinvolse l’intero mondo economico e mutò il tessuto sociale. Lo stesso è accaduto trent’anni fa con l’hi tech. Nemmeno le grandi aziende tradizionali possono fare a meno dei prodotti e delle metodologie hi tech. La stessa Volkswagen, ad esempio, si fermerebbe senza microchip, computer o robot. La tecnologia ha trasformato l’industria e il modo di vivere, diventando la colonna vertebrale del nuovo sistema.
Ora l’economia si fonda non solo sulla capacità di produrre un bene fisico ma sulla capacità di avere nuove visioni e realizzare processi alternativi. Lo stesso sta avvenendo nel commercio. La vendita al dettaglio sta cambiando completamente. Un numero sempre più crescente di acquisti avviene online e ogni anno chiudono centinaia di negozi. Il commercio, come lo conoscevano 30 anni fa, sarà presto ricordato soltanto nei libri di storia. Ovviamente gli Usa sono la motrice di questa evoluzione tecnologica che sembra non conoscere soste. I dati del mercato lavorativo (non agricolo) di gennaio sono stati sorprendentemente molto positivi: 353 mila posti creati contro attese per 185.000. I salari sono aumentati dello 0,6% solo su dicembre, il doppio delle previsioni.
La resistenza
L’economia Usa si presenta dunque molto resiliente e la recessione resta lontana. Per l’italia è una buona notizia. I principi su cui si fonda la crescita americana sono un fattore decisamente positivo per lo sviluppo del nostro Paese. Seppure a fatica, la nostra impresa sta mutando pelle, avendo come stella polare la qualità del prodotto e il cambio dei processi aziendali. Negli ultimi quattro anni le vendite all’estero sono cresciute del 13,8%, a prezzi costanti, nonostante la caduta subita nel 2020. La performance risulta nettamente migliore di quella registrata dalla Spagna (+7,6%) e soprattutto della Germania (-2,0%) e della Francia (-4,7%).
L’export, prima quasi totalmente legato all’europa, sta sfruttando questa evoluzione. Nel 2022 è salito del 10,3%: un aumento spinto in larga parte dal fattore prezzo più che dal volume che ha segnato solo un più 2,6%. Nel 2023 ha raggiunto i 600 miliardi di euro, consentendo all’italia, ottavo Paese esportatore nel mondo, di mantenere pressoché invariata la sua quota di mercato. Nei primi undici mesi del 2023 le esportazioni nette verso gli Stati Uniti sono salite a 41 miliardi di dollari, all’incirca 37 miliardi di euro.
In pratica, gli Usa stanno compensando la flessione che le nostre vendite avrebbero registrato a causa della debole domanda europea. Insomma, se vogliamo tornare a svilupparci, dobbiamo guardare a Washington e investire su qualità, ricerca, biotecnologie e green. Il vecchio mondo produttivo europeo e le sue logiche stanno finendo. Prima sapremo adattarci al cambiamento e prima torneremo a crescere.