RIPENSARE IL LAVORO DA CASA PROPRIA O CONDIVISO? SCRIVANIE IN CRISI
«The New Yorker» ha dedicato la copertina allo smart working, adombrandone il fallimento. Anche la rivoluzione della sharing economy secondo il modello Wework non soddisfa più. Per l’ex sindacalista Bentivogli bisogna ripartire dalle imprese e riorganizzare spazi e tempi intaccati dal digitale (e presto dall’ai)
Luciano De Crescenzo — che prima di diventare un famoso scrittore e divulgatore di filosofia era stato un dipendente dell’ibm — amava raccontare che in azienda, allora, per evitare gaffe entrando in un ufficio, bisognava prima di tutto guardare verso il tavolo e buttare un veloce occhio sul numero dei bicchieri intorno alla brocca d’acqua: 2 bicchieri? Uhm, persona di non grande conto. Quattro? Importante. Otto? Importantissimo. Facezie, forse, ma anche rituali stratificati che aiutavano a trovare un’identità nel lavoro. Un’identità tribale se vogliamo. Ma almeno molto chiara: devo raggiungere un certo numero di bicchieri e a quel punto conterò qualcosa. L’upgrade della pianta di ficus di fantozziana memoria. Ma la scrivania rimane al centro del dibattito sullo stato di salute del lavoro. The New Yorker ci ha dedicato, con una bellissima illustrazione di Bianca Bagnarelli, la copertina di gennaio: una ragazza in smart working con la sua tazza di caffè, il suo computer e il suo gatto guarda fuori dalla finestra sconsolata i festeggiamenti dell’ultimo dell’anno. Per la serie: devo avere sbagliato qualcosa. «Volevamo cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi», rifletteva uno dei personaggi di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola sul Dopoguerra italiano e la rinascita dell’occupazione. È la storia di Adam Neumann, uno dei tre fondatori di Wework, la società a un passo dalla bancarotta che lui sta tentando di riacquistare, senza l’appoggio però dei finanziatori.
Wework è a un passo da Nowork. Quello che sembrava il nuovo paradigma della sharing economy (anche la scrivania e gli spazi aziendali condivisi) si è schiantato. Difficile dire se senza la pandemia sarebbe stato diverso. E se i virus hanno contribuito. Forse sì. Il punto è che, ancora una volta, tutto ruota intorno a questo totem del lavoro: scrivania con brocca, scrivania di casa o scrivania condivisa. O di più: la fine della scrivania sostituita da CHATGPT? Qualche imprenditore magari lo vagheggia, non avendo ancora compreso che è uno strumento da usare con le pinze e che potrebbe portare, senza l’uomo, a un effetto boomerang su responsabilità e produttività. In mezzo al guado, spensierati come la ragazza di Bagnarelli, ci rimangono soprattutto i più giovani (o i più anziani).
Le idee
E anche se questi fenomeni appaiono globali, come dimostra la cover di The New Yorker, l’italia lo sta declinando al peggio: secondo Gallup siamo praticamente il peggior Paese d’europa per «infelicità» sul posto di lavoro. In altre parole la cultura aziendale è spesso «tossica». Anche questa non è una caratteristica solo italiana: basterebbe ricordare i grandi scandali proprio delle big tech e il caso Travis Kalanick e Uber negli Stati Uniti. Laddove però dobbiamo concludere che in altri Paesi esistono dei sistemi immunitari più efficaci. Non a caso lo stesso Kalanick venne defenestrato dalla sua stessa società, come accadde tanti anni prima allo stesso Steve Jobs, non certo un esempio di fairplay nei confronti dei dipendenti.
Tra le idee per ripensare il lavoro ci sono quelle espresse da Marco Bentivogli, fondatore di Base Italia ed ex sindacalista, che punta subito il dito fin dalla copertina e dal titolo: «Licenziate i padroni. Come i capi hanno rovinato il lavoro» (Rizzoli). La tesi: in Italia le dinamiche del rapporto lavorativo restano ancorate a vecchi concetti padronali. La ricchezza si eredita e il lavoro dipende ancora dalle amicizie e dalle relazioni.
Con un’aggravante di cui forse non ci si rende conto fino in fondo e di cui ci si renderà conto solo quando sarà troppo tardi: il digitale e la nuova stagione dell’intelligenza artificiale sta cambiando tutto anche per i colletti bianchi.
Le occasioni
E se è vero che tutti i grandi salti tecnologici nella storia hanno comportato crisi e occasioni, rischiamo di perdere le occasioni, trovandoci solo il conto da pagare per i più giovani.
«Nelle tante transizioni che stiamo vivendo, quella ambientale, energetica ma anche quella demografica, forse la più sottovalutata — ragiona lo stesso Bentivogli — quella digitale in particolare scongela il tempo e lo spazio del lavoro. Si fa meno attenzione agli orari, ai 5 giorni separati dal week end, alle 40 ore settimanali. Questo perché le ore computate sono sempre meno rilevanti e diventa sempre più importante lavorare sul progetto, sui risultati. Questo cambia tutto: la contrattualistica basata sullo scambio tra ore e prestazione è diventata obsoleta. Le nuove generazioni con professionalità medio alta capiscono che possono pretendere responsabilità, autonomia e libertà. Se una volta era il padrone a scegliersi i collaboratori ora in questa fascia accade il contrario. Per completare il quadro si aggiunga il fatto che il digitale cancella le azioni routinarie e ripetitive, cioè quelle soprattutto impiegatizie. Il risultato dunque è che le professionalità medio alte, quelle con competenze, forse hanno più possibilità e flessibilità. Sotto, giù in basso, troviamo lavoro a bassa professionalità, con una domanda alta ma allo stesso tempo molto mal pagato, con il rischio che nelle città si navighi sotto la soglia di povertà. E in mezzo il vuoto. È questo il guaio». In sostanza le organizzazioni aziendali non hanno sfruttato il rientro dalla lunga pausa del Covid per ripensarsi. Non è stato creato uno Chief smart working officer. E anche questo scollamento tra aspettative delle persone e realtà sta alimentando fenomeni come il burn out e il quiet quitting. Ciliegina sulla torta, si fa per dire, il sostanziale fallimento in Italia della creazione di un ecosistema solido e diffuso di start up che potesse rappresentare un’alternativa concreta al percorso nella grande azienda e una via se non per licenziare i padroni, almeno per affiancarli. Il digitale, ora possiamo dirlo, in Italia non è diventata un’opportunità. Come nel dilemma di Uber: hanno vinto i tassisti. E perso gli utenti. Sarà ora necessario non ripetere gli stessi errori se è vero che l’ai farà ripartire una nuova transizione.
Insomma, il lavoro sta diventando un fenomeno glocal, in cui non basta più guardare solo ai fenomeni mondiali o analizzare le peculiarità locali. Perché ciò che deve preoccupare è il trend negativo di ambedue queste componenti.