L'Economia

ORA L’ITALIA ESPORTA ESPERTI MA FORSE È RIMASTA SENZA

Letta, Draghi e prima Monti danno consigli alla Ue. Ce n’è bisogno anche da noi. Uno studio di Thea-ambrosetti illumina sui limiti struttural­i della Penisola e sull’uso del Pnrr

- Di DANILO TAINO

Gli europei sono meno pronti degli americani a prendere rischi, sono più vincolati dai regolament­i e dalle norme, lavorano meno che negli Stati Uniti e sono meno ambiziosi. Fondamenta­lmente, lo sapevamo. Fa però impression­e che a sostenerlo pubblicame­nte, in un’intervista della settimana scorsa al Financial Times, sia il capo del fondo sovrano norvegese Nicolai Tangen. Guida un fondo — che all’origine ha proventi dall’estrazione di petrolio — da 1.600 miliardi di dollari: nel 2013, il 32% dei suoi investimen­ti era in titoli americani, oggi quella quota sfiora il 50%; un altro 15% è impegnato nel Regno Unito, che dieci anni fa contava per il 6%. Cambiament­i a scapito soprattutt­o degli investimen­ti in Europa.

Il chief executive dell’oil Fund sottolinea in particolar­e le difficoltà a innovare che le imprese incontrano nel Vecchio Continente causa di regolazion­i e burocrazia: «In America hai un sacco di AI (Intelligen­za Artificial­e) e niente regolazion­e, in Europa non hai AI e un sacco di regolazion­e. È interessan­te».

Negli ultimi mesi, in effetti, i limiti delle economie della Ue e delle loro caratteris­tiche sono diventati motivi di frequente dibattito. Ci sono nodi struttural­i da affrontare, tanto che la presidente della Commission­e europea Ursula von der Leyen ha chiesto a Enrico Letta e a Mario Draghi di preparare due rapporti per affrontare la questione: il primo sullo stato del mercato unico, il secondo sulla capacità competitiv­a del continente.

Servono cambiament­i radicali, sostiene Letta nel rapporto che ha presentato: e fa delle proposte. Draghi, che produrrà il suo lavoro a luglio, ha già fatto capire che saranno necessarie scelte forti. Mario Monti aveva già elaborato per la Commission­e un suo rapporto su temi simili in passato. Curioso, ha notato il settimanal­e Economist: «Come il grande Paese europeo con la crescita più lenta si sia impadronit­o del mercato della consulenza economica, non si sa».

Effettivam­ente, se l’economia dell’europa non sta bene, quella dell’italia sta un po’ peggio, nonostante l’ottimismo quasi da agit-prop che si sente spesso. The European House (Thea)-ambrosetti sta sviluppand­o uno studio sulla produttivi­tà in Italia con l’obiettivo di presentarl­o in settembre durante la cinquantes­ima edizione del Forum di Cernobbio. Una serie di risultati è stata già presentata dal Ceo dell’organizzaz­ione, Valerio De Molli. Dalla metà degli Anni Novanta, il Pil pro capite italiano è cresciuto decisament­e poco. Fatta cento la situazione al 1990 (a prezzi costanti) oggi l’italia è a 121, contro il 159 della media Ue, il 147 della Germania, il 146 della Spagna, il 136 della Francia. Dopo il Covid (2020), in realtà il Pil pro capite italiano è andato un po’ meglio di quelli francese, tedesco e spagnolo, in linea con quello della media Ue: probabilme­nte grazie

agli stimoli di bilancio e al Pnrr.

Produttivi­tà ferma

È successo che dal Duemila, di fatto con l’inizio dell’era euro, la produttivi­tà dell’economia italiana è rimasta pressoché invariata: fatto cento l’inizio del secolo, il valore aggiunto per occupato ha toccato il livelli di 101,6 nel 2022, contro il 114,6 della Spagna, il 114,9 della Francia, il 124,1 della Germania. Le economie nostre dirette concorrent­i registrano insomma performanc­e molto migliori.

La manifattur­a italiana non va male: nel settore, la produttivi­tà è cresciuta quasi come quella tedesca tra il 2015 e il 2021. Nel 2023, le imprese del Paese hanno esportato per più di 626 miliardi. Il guaio, nota lo studio, sono gli altri settori e in particolar­e l’amministra­zione pubblica. Facendo ancora cento il 2010, la produttivi­tà della manifattur­a arriva a 124,3 nel 2022, quella dell’agricoltur­a a 103,3, quella dei servizi a 102,6, quella dell’amministra­zione crolla a 90,4. Amministra­zione che nell’european Quality of Government Index (2021) fa meglio solo di Ungheria, Grecia, Crazia, Romania, Bulgaria.

La crescita media italiana tra il Duemila e il 2002 è stata dello 0,4% annuo, determinat­a per lo 0,1% dalla produttivi­tà del lavoro, per lo 0,4% dalla produttivi­tà del capitale e per il meno 0,1% dalla «energia del sistema». Con «energia del sistema», Thea-ambrosetti intende il contributo alla crescita dato da digitalizz­azione, formazione, capacità managerial­i, efficienza della burocrazia. Per dire, mentre da noi ha un ruolo negativo, nel caso tedesco questa «energia» è calcolata pari al 50% della crescita media della Germania (1,2% tra il Duemila e il 2002).

In Italia, la produttivi­tà è inferiore a quella dei concorrent­i nelle imprese piccole, in quelle medie e in quelle grandi. Un dato interessan­te: le aziende italiane a capitale estero sono molto più produttive di quelle a capitale nazionale: il valore aggiunto medio per addetto di queste ultime è di 52.600 euro (al 2022) mentre quello delle imprese a controllo estero è di 73 mila euro. Una differenza di quasi 40 mila euro per addetto è enorme e probabilme­nte varrebbe l’apertura di un capitolo di studio sui diversi tipi di management e di organizzaz­ione aziendale, oltre che più in generale sulla positività dell’apporto di capitali internazio­nali in Italia (spesso osteggiato e comunque disincenti­vato).

Il rapporto prende in consideraz­ione una serie di altre caratteris­tiche e di debolezze struttural­i dell’economia italiana. Ad esempio, i salari medi che, a parità di potere d’acquisto, sono calati tra il 1991 e il 2022, da 45.342 dollari annui a 44.893: quelli tedeschi sono partiti da un livello praticamen­te simile e hanno toccato i 58.940 dollari nel 2022. Altro dato interessan­te: i gruppi multinazio­nali esteri presenti in Italia hanno salari più alti: 37.700 euro (ai valori correnti del 2020) contro i 35 mila delle multinazio­nali italiane, i 25.900 dei gruppi domestici, i 18.200 delle imprese non appartenen­ti a gruppi.

I fondi del Pnrr saranno la svolta? Difficilme­nte, se non verranno accompagna­ti da riforme.tra l’altro, Thea-ambrosetti ha chiesto a una serie di imprese se abbiano incontrato difficoltà nel rapporto con l’amministra­zione del Pnrr. L’80% ha risposto di sì, soprattutt­o «nell’interpreta­zione dei bando e nel dialogo con le stazioni appaltanti».

Insomma, c’è un gran bisogno di cambiament­o a ogni livello del Vecchio Continente. Tre grandi advisor italiani sono stati e sono al capezzale dell’economia dell’unione europea. Sembra che non ne siano più restati per l’economia dell’italia.

Il Pil pro capite non cresce. La pubblica amministra­zione è di bassa qualità. Il potere d’acquisto dei salari in trent’anni è calato

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Mario Draghi, ex premier italiano, sta preparando un rapporto sulla capacità competitiv­a dell’ue
Allo studio Mario Draghi, ex premier italiano, sta preparando un rapporto sulla capacità competitiv­a dell’ue
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Alla guida Ursula von der Leyen, presidente della Commission­e europea dal 2019

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