ORA L’ITALIA ESPORTA ESPERTI MA FORSE È RIMASTA SENZA
Letta, Draghi e prima Monti danno consigli alla Ue. Ce n’è bisogno anche da noi. Uno studio di Thea-ambrosetti illumina sui limiti strutturali della Penisola e sull’uso del Pnrr
Gli europei sono meno pronti degli americani a prendere rischi, sono più vincolati dai regolamenti e dalle norme, lavorano meno che negli Stati Uniti e sono meno ambiziosi. Fondamentalmente, lo sapevamo. Fa però impressione che a sostenerlo pubblicamente, in un’intervista della settimana scorsa al Financial Times, sia il capo del fondo sovrano norvegese Nicolai Tangen. Guida un fondo — che all’origine ha proventi dall’estrazione di petrolio — da 1.600 miliardi di dollari: nel 2013, il 32% dei suoi investimenti era in titoli americani, oggi quella quota sfiora il 50%; un altro 15% è impegnato nel Regno Unito, che dieci anni fa contava per il 6%. Cambiamenti a scapito soprattutto degli investimenti in Europa.
Il chief executive dell’oil Fund sottolinea in particolare le difficoltà a innovare che le imprese incontrano nel Vecchio Continente causa di regolazioni e burocrazia: «In America hai un sacco di AI (Intelligenza Artificiale) e niente regolazione, in Europa non hai AI e un sacco di regolazione. È interessante».
Negli ultimi mesi, in effetti, i limiti delle economie della Ue e delle loro caratteristiche sono diventati motivi di frequente dibattito. Ci sono nodi strutturali da affrontare, tanto che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha chiesto a Enrico Letta e a Mario Draghi di preparare due rapporti per affrontare la questione: il primo sullo stato del mercato unico, il secondo sulla capacità competitiva del continente.
Servono cambiamenti radicali, sostiene Letta nel rapporto che ha presentato: e fa delle proposte. Draghi, che produrrà il suo lavoro a luglio, ha già fatto capire che saranno necessarie scelte forti. Mario Monti aveva già elaborato per la Commissione un suo rapporto su temi simili in passato. Curioso, ha notato il settimanale Economist: «Come il grande Paese europeo con la crescita più lenta si sia impadronito del mercato della consulenza economica, non si sa».
Effettivamente, se l’economia dell’europa non sta bene, quella dell’italia sta un po’ peggio, nonostante l’ottimismo quasi da agit-prop che si sente spesso. The European House (Thea)-ambrosetti sta sviluppando uno studio sulla produttività in Italia con l’obiettivo di presentarlo in settembre durante la cinquantesima edizione del Forum di Cernobbio. Una serie di risultati è stata già presentata dal Ceo dell’organizzazione, Valerio De Molli. Dalla metà degli Anni Novanta, il Pil pro capite italiano è cresciuto decisamente poco. Fatta cento la situazione al 1990 (a prezzi costanti) oggi l’italia è a 121, contro il 159 della media Ue, il 147 della Germania, il 146 della Spagna, il 136 della Francia. Dopo il Covid (2020), in realtà il Pil pro capite italiano è andato un po’ meglio di quelli francese, tedesco e spagnolo, in linea con quello della media Ue: probabilmente grazie
agli stimoli di bilancio e al Pnrr.
Produttività ferma
È successo che dal Duemila, di fatto con l’inizio dell’era euro, la produttività dell’economia italiana è rimasta pressoché invariata: fatto cento l’inizio del secolo, il valore aggiunto per occupato ha toccato il livelli di 101,6 nel 2022, contro il 114,6 della Spagna, il 114,9 della Francia, il 124,1 della Germania. Le economie nostre dirette concorrenti registrano insomma performance molto migliori.
La manifattura italiana non va male: nel settore, la produttività è cresciuta quasi come quella tedesca tra il 2015 e il 2021. Nel 2023, le imprese del Paese hanno esportato per più di 626 miliardi. Il guaio, nota lo studio, sono gli altri settori e in particolare l’amministrazione pubblica. Facendo ancora cento il 2010, la produttività della manifattura arriva a 124,3 nel 2022, quella dell’agricoltura a 103,3, quella dei servizi a 102,6, quella dell’amministrazione crolla a 90,4. Amministrazione che nell’european Quality of Government Index (2021) fa meglio solo di Ungheria, Grecia, Crazia, Romania, Bulgaria.
La crescita media italiana tra il Duemila e il 2002 è stata dello 0,4% annuo, determinata per lo 0,1% dalla produttività del lavoro, per lo 0,4% dalla produttività del capitale e per il meno 0,1% dalla «energia del sistema». Con «energia del sistema», Thea-ambrosetti intende il contributo alla crescita dato da digitalizzazione, formazione, capacità manageriali, efficienza della burocrazia. Per dire, mentre da noi ha un ruolo negativo, nel caso tedesco questa «energia» è calcolata pari al 50% della crescita media della Germania (1,2% tra il Duemila e il 2002).
In Italia, la produttività è inferiore a quella dei concorrenti nelle imprese piccole, in quelle medie e in quelle grandi. Un dato interessante: le aziende italiane a capitale estero sono molto più produttive di quelle a capitale nazionale: il valore aggiunto medio per addetto di queste ultime è di 52.600 euro (al 2022) mentre quello delle imprese a controllo estero è di 73 mila euro. Una differenza di quasi 40 mila euro per addetto è enorme e probabilmente varrebbe l’apertura di un capitolo di studio sui diversi tipi di management e di organizzazione aziendale, oltre che più in generale sulla positività dell’apporto di capitali internazionali in Italia (spesso osteggiato e comunque disincentivato).
Il rapporto prende in considerazione una serie di altre caratteristiche e di debolezze strutturali dell’economia italiana. Ad esempio, i salari medi che, a parità di potere d’acquisto, sono calati tra il 1991 e il 2022, da 45.342 dollari annui a 44.893: quelli tedeschi sono partiti da un livello praticamente simile e hanno toccato i 58.940 dollari nel 2022. Altro dato interessante: i gruppi multinazionali esteri presenti in Italia hanno salari più alti: 37.700 euro (ai valori correnti del 2020) contro i 35 mila delle multinazionali italiane, i 25.900 dei gruppi domestici, i 18.200 delle imprese non appartenenti a gruppi.
I fondi del Pnrr saranno la svolta? Difficilmente, se non verranno accompagnati da riforme.tra l’altro, Thea-ambrosetti ha chiesto a una serie di imprese se abbiano incontrato difficoltà nel rapporto con l’amministrazione del Pnrr. L’80% ha risposto di sì, soprattutto «nell’interpretazione dei bando e nel dialogo con le stazioni appaltanti».
Insomma, c’è un gran bisogno di cambiamento a ogni livello del Vecchio Continente. Tre grandi advisor italiani sono stati e sono al capezzale dell’economia dell’unione europea. Sembra che non ne siano più restati per l’economia dell’italia.
Il Pil pro capite non cresce. La pubblica amministrazione è di bassa qualità. Il potere d’acquisto dei salari in trent’anni è calato