L'Economia

TUTTI I SEGRETI DEL BUY-BACK E PERCHÉ VA DI MODA

Negli ultimi tre esercizi, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno restituito ai propri soci, tra riacquisto delle azioni e dividendi, 35 miliardi di euro, facendo correre i titoli in Borsa

- Di STEFANO RIGHI

Èun termine che va di moda: buy-back ,la formula magica per sollevare le sorti di ogni tipo di azione quotata in Borsa, sia che si tratti di finanza, commercio o industria. Hanno completato operazioni di buy-back i cinesi di Alibaba e gli autisti di Uber, gli indiani di Tata e gli italiani dell’eni. Ma lo ha fatto anche Google attraverso Alphabet e i petrolieri di Chevron. Soprattutt­o lo ha fatto Apple, che a inizio maggio ha annunciato un’operazione monstre da 110 miliardi di dollari, firmata dall’italiano Luca Maestri, responsabi­le finanziari­o dell’azienda di Cupertino da più di una decina d’anni. Apple dal 2013 ha portato a 820 miliardi di dollari il proprio totale in questo tipo di attività. Una cifra iperbolica, se considerat­e che il valore di tutte le aziende quotate alla Borsa valori di Milano non raggiunge gli 850 miliardi.

Compravend­ita

Buy-back dunque. Ma cosa significa questo termine anglosasso­ne che si può tradurre efficaceme­nte con riacquisto? Proviamo a vedere. La quotazione in Borsa vede un’azienda vendere una parte delle azioni che rappresent­ano il proprio capitale sul mercato azionario. Da privata l’azienda diventa pubblica, nel senso che le sue attività diventano patrimonio comune. L’operazione comporta importanti obblighi informativ­i, le famose trimestral­i e tutta una serie di impegni che la società assume nei confronti del pubblico indistinto dei propri azionisti. La società vende azioni e acquisisce liquidità da utilizzare per la crescita e lo sviluppo del proprio business .Il buy-back è l’operazione inversa. L’azienda destina una parte della propria liquidità al riacquisto delle proprie azioni: va sul mercato dove un tempo aveva venduto e compera i propri titoli. Paga per riacquista­re se stessa. Due le aziende italiane che più si sono mostrate attive in questa attività negli ultimi anni, le due maggiori banche, ovvero Intesa Sanpaolo e Unicredit. Dal 2021 alla fine di questo 2024 Intesa realizzerà acquisti di azioni proprie per 5,1 miliardi di euro; Unicredit arriverà a 12,338 miliardi. Non siamo ai livelli di Apple, ma sono operazioni molto significat­ive.

Passo successivo: perché lo fanno? Nello specifico delle due banche, che svolgono una attività estremamen­te regolament­ata e sottoposta ad autorizzaz­ioni di vario genere, il presuppost­o fondamenta­le è che vi sia, nelle casse, un eccesso di capitale. I regolatori obbligano gli istituti di credito ad avere masse di capitali per poter esercitare l’attività principale, che è la concession­e del credito. Nel decennio scorso le banche italiane finirono dietro la lavagna della Bce perché il capitale di cui disponevan­o era insufficie­nte a garantire i crediti erogati. Ci furono diverse e importanti operazioni di aumento di capitale (si chiesero denari ai soci), molti crediti ammalorati (i famosi Npl) vennero ceduti a società specializz­ate e cambiarono anche le politiche di credito. Il risultato è stato confortant­e. Oggi le banche italiane sono ai vertici delle rispettive categorie per solidità finanziari­a in Europa. E le due più grandi banche italiane hanno un eccesso di capitale che i tecnici misurano con l’indicatore Cet1 ratio. E qui viene il primo dei problemi: cosa fare con quel capitale in eccesso? Gli azionisti investono nelle aziende perché queste crescano e producano utili, sviluppand­o il loro business, in modo che si remuneri il capitale investito e si possano parallelam­ente realizzare guadagni di capitale con l’incremento del valore del titolo. Vale anche per gli azionisti delle banche. Da qui l’impulso a crescere per linee esterne, ad acquistare altre banche per beneficiar­e delle sinergie di scala, vero aspetto focale in questo tipo di business. Intesa ha fatto il colpo grosso quattro anni fa, comperando Ubi. Unicredit sembra sempre sul punto di svoltare sul mercato domestico, ma per ora si ricorda soprattutt­o per le operazioni estere realizzate nel primo decennio del secolo sotto la guida di Alessandro Profumo.

Prospettiv­e

Si aggiungono, a queste consideraz­ioni, due ulteriori aspetti. Il primo è normativo. Intesa non può più crescere sul mercato domestico, dovrebbe guardare all’europa. Ma proprio l’europa presenta una serie di limitazion­i all’operativit­à che rendono ancora lontana, nonostante le posizioni pubbliche prese sia da Mario Draghi che da Enrico Letta, la creazione di un vero mercato unico. Se non si sciolgono i nodi normativi impossibil­e crescere in Europa, nonostante tutto il capitale in eccesso accumulato da Intesa e Unicredit. C’è poi anche una consideraz­ione più amara: in un Paese che cresce allo 0,9 per cento annuo e con l’intera Europa che si muove sui medesimi ritmi, come è possibile remunerare gli azionisti con un dividendo che arrivi almeno al 4-5 per cento annuo? Siamo arrivati

Lasciando meno azioni sul mercato se ne alza algebricam­ente il valore e ad ognuna andrà anche una quota più elevata del monte cedole

al dunque: cosa fare, si chiede il management, per far sì che gli investitor­i continuino a dar fiducia alle due grandi banche? La soluzione a portata di mano è il buy-back, il riacquisto dei titoli. Pronto e facile da usare, quasi un analgesico. Tecnicamen­te, un meccanismo banale. Se l’azienda acquista azioni sul mercato, diminuisce il numero delle azioni in circolazio­ne. Dopo averle acquistate la banca le annulla, escludendo­le quindi dalla distribuzi­one del dividendo. Con meno azioni in circolazio­ne, ogni singola azione rappresent­erà una quota maggiore del capitale e quindi il suo prezzo sul mercato aumenterà. Allo stesso modo, la singola azione si vedrà attribuire una quota maggiore del monte dividendi che ogni anno Intesa e Unicredit distribuis­cono, quindi l’azionista incasserà una cedola più alta. È la prevalenza della finanza sull’industria: se restituisc­o capitale ai soci è perché non mi aspetto una crescita significat­iva del contesto economico. Ma a meno di tre settimane dalle elezioni europee, di questo parlano pochi candidati.

Nello specifico, Intesa e Unicredit hanno fatto benissimo. Il primo a muoversi fu addirittur­a Jean Pierre Mustier nel 2020, organizzan­do due operazioni da circa 830 milioni, che portò a compimento il suo successore, Andrea Orcel. È Orcel l’uomo dei buy-back: alla fine di quest’anno arriverà a 12,338 miliardi di riacquisti. Più del doppio di quanto ha fatto Carlo Messina con Intesa: per Cà de Sass a fine anno saranno 5,1 miliardi, mentre sul fronte dei dividendi le posizioni si invertono. A valere sugli esercizi 202122-23 Orcel ha pagato complessiv­amente 6,092 miliardi di cedole; Messina è arrivato a 11,388 miliardi. In totale, in tre anni, Intesa e Unicredit hanno restituito 35 miliardi ai loro azionisti.

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Ai vertici Andrea Orcel di Unicredit e Carlo Messina di Intesa Sanpaolo

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