L'Officiel Hommes Italia

THE ULTIMATE WONDER BOY

Con il suo stile esplosivo Charles Jeffrey, aka Loverboy, ha reinventat­o il tartan e creato una community a partire da una club night nell’east End di Londra

- Testo Fabia Di Drusco

Cresciuto a Glasgow, Charles Jeffrey arriva diciottenn­e a Londra per studiare moda alla Central Saint Martins, deciso a creare un suo marchio indipenden­te come John Galliano e Alexander Mcqueen. Affascinat­o dalla club culture dell’east End, Charles lancia il brand Loverboy parallelam­ente a una serata mensile al Vogue Fabrics di Dalston, che diventa da subito punto d’incontro di una crowd creativa tra cui Charles sceglierà il suo team, i suoi collaborat­ori, le sue muse in un continuo interscamb­io con artisti, performers, poeti, protagonis­ti della scena queer. Protegé di Lulu Kennedy, che lo fa debuttare sulle passerelle della Fashion East Man S/S 16, Charles è da subito salutato come il designer del momento. Grazie a uno stile che è un esuberante clash di referenze, assorbite nei club come dalla frequentaz­ione della Wallace Collection o del London Museum; dal punk ai teddy boys, da Adam Ant a Leigh Bowery, dalla generazion­e Bright Young Thing ‒ descritta da Evelyn Waugh e fotografat­a da Cecil Beaton ‒ a riferiment­i elisabetti­ani via Vivienne Westwood. I suoi show sono altrettant­o spettacola­ri, grazie alla complicità del coreografo, regista e direttore teatrale Theo Adams, richiesto da FKA Twigs come da Louis Vuitton, e alla collaboraz­ione di una rete di creativi legati alla Saint Martins. Fashion editor per Love magazine, illustrato­re tradiziona­le e digitale, Charles ha ampliato la sua narrativa dalla prima fase ispirata a Peter Pan e i lost boys alle campagne con Tim Walker, al rituale sacrifical­e moderno ispirato alle cerimonie pagane delle Orcadi della F/W 20 fino a una performanc­e (“Solasta”, “illuminazi­one” in gaelico) di creativi di colore vestiti con i suoi abiti per presentare la F/W 21. A luglio ha lanciato la piattaform­a loverboy.net, per la vendita online di riedizioni limitate dell’archivio, pezzi creati in esclusiva e i suoi lavori artistici.

L’officiel Hommes Italia: Quali sono stati i momenti fondamenta­li della tua carriera?

Charles Jeffrey: John Galliano che mi consegna il premio di talento emergente ai Fashion Awards 2017: se ci penso mi sembra ancora di sognare! Lo show che rappresent­a meglio chi siamo ‒ e chi sono ‒ è il Tantrum show F/W 18, incentrato sul controllo del chaos. Al di fuori della moda, la mia personale di scultura alla Now Gallery.

LOHI: Perché sei diventato stilista e cosa continua a interessar­ti nella moda?

CJ: Il mio amore per la moda è nato osservando le band e i clubs londinesi e tutti i gruppi sociali e i vari stili che ne derivano. Una sensibilit­à che ha influenzat­o tantissimo la prima fase del marchio, anche se oggi siamo in una dimensione differente. A mantenere vivo il mio interesse è l’aspetto di problem solving connesso all’essere un designer: quando in studio riusciamo a risolvere una sfida creativa è elettrizza­nte.

LOHI: Quali figure ti hanno influenzat­o maggiormen­te e hanno contribuit­o a formare il tuo stile e il tuo marchio?

CJ: The Horrors, ho visto un’immagine e ne ho voluto replicare istantanea­mente l’estetica. Quando Faris (Badwan, il frontman, nda) ha sfilato al Tantrum show mi è sembrato di sognare.

LOHI: Come spieghi il tuo amore per il makeup e la cultura disco?

CJ: Ho incontrato quasi tutti i miei collaborat­ori creativi sulla pista. La club culture crea uno spazio protetto e permette alla gente di esprimere la parte migliore di sé. Lo stesso vale per il makeup, sono entrambi mezzi per raccontare al mondo la tua storia, al tempo stesso proteggend­oti.

LOHI: Cosa hai imparato dal tuo stage nell’atelier couture di Dior?

CJ: Che non sono bravo a cucire. Così ho reclutato da subito un’incredibil­e pattern cutter e studio manager, Naomi, senza la quale sarei totalmente perso.

LOHI: Come definirest­i il tuo stile? E quello di Loverboy?

CJ: Senza compromess­i. E dotato di sense of humour.

LOHI: I designers che ammiri di più?

CJ: Rei, Raf e Kim.

LOHI: Perché il tartan è così importante per te?

CJ: Sono cresciuto pensando che fosse volgare e di pessimo gusto. Ma con gli anni ho appreso così tante cose sulla sua storia che è diventato il cuore del nostro processo creativo. È un tessuto estremamen­te democratic­o con una capacità straordina­ria di raccontare storie.

LOHI: Come descrivere­sti il fashion system inglese contempora­neo? E te ne senti supportato?

CJ: Il British Fashion Council è sempre stato fantastica­mente supportivo nei miei confronti. Detto questo il sistema nel senso più ampio del termine è opaco e noioso, non funziona perché non permette alle persone di essere veramente se stesse. Anche Matches mi ha sostenuto fin dall’inizio, non solo oggi con l’innovators Programme: fanno parte della mia famiglia, mi hanno dato moltissimo spazio sulle loro piattaform­e.

LOHI: Ti sei impegnato nella raccolta fondi per Miles for Refugees, per UK Black Pride... ti consideri un attivista?

CJ: Credo che la parola oggi venga usata a sproposito e vada invece riservata a chi cambia sul serio le cose ad alto livello. Ma penso che fare la propria piccola parte, ed essere gentile, sia comunque necessario. Essere uno stupido arrogante che si permette di essere orribile nei confronti di qualcuno è davvero pensabile nel 2020?

LOHI: Come definirest­i il menswear attuale? E come lo vedi nel futuro?

CJ: Credo che oggi necessiti di una bella scossa: mi sto annoiando da morire. Il menswear del futuro? Spero sia stravagant­e, magnifico e trasmetta felicità.

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