THERE’S NO LIMITS
Nato ai piedi del Cervino, alpinista, figlio e nipote di alpinisti, Hervé Barmasse è uno dei grandi eredi degli scalatori del passato. Ha aperto vie nuove e scalato le vette più difficili del mondo, continuando a guardare alla montagna come una maestra, «
Ogni episodio, alla voce “alpinismo”, sul sito di Hervé Barmasse, lascia col fiato sospeso. Racconta le sue imprese, dall’ascesa alla “Gran Becca”, la montagna di casa, a luoghi lontani e altrettanto leggendari in Pakistan, Nepal, Tibet e Patagonia. Alpinista professionista, guida alpina, storyteller e conferenziere, è atleta del Global Team The North Face.
L’officiel Hommes Italia: Sei nato sotto il Cervino, da una famiglia di alpinisti, cosa significa per te la montagna? Hervé Barmasse: La montagna è l’elemento che mi rappresenta. È stata una scuola, il mio mentore fin da ragazzino, quando mi lasciavano andare da solo per i boschi dovevo imparare a pensare a me stesso, arrangiarmi, diventare responsabile. Prima di diventare alpinista, e di sceglierla anche per la scalata, mi sono innamorato della montagna da vivere.
LOHI: Ti cito: “In montagna non si può mentire, cercare scuse, rimandare decisioni… ”
HB: La solitaria non è qualcosa che vivono tutti. Ti trovi di fronte alla montagna, non è come in altre situazioni che puoi cercare degli escamotage: non puoi barare, sei da solo, apri la via e se provi a non rispettare il tuo avversario ‒ che non è un altro uomo, ma è la parete, qualcosa di più grande di te ‒, sei tu che ci rimetti. Impari a essere onesto, sai di essere un ospite, di dover passare in punta di piedi. La natura ti dà i limiti, ma ti fa anche capire i tuoi pregi.
LOHI: Ti definiscono uno dei “grandi eredi degli alpinisti del passato”.
HB: Potrebbe essere perché l’alpinismo di un tempo aveva una parte romantica, erano alpinisti attenti alla montagna. Ora c’è molta competizione, si vede la montagna come un “campo da gioco”, ma non può essere considerata tale: la natura è incontrollabile, selvaggia. Troppo spesso siamo concentrati sulle nostre gesta, siamo sportivi, amiamo le sfide; dovremmo invece impegnarci a far passare un messaggio, come hanno fatto Walter Bonatti (1930-2011), che ha fatto innamorare della montagna tanti altri alpinisti, e Reinhold Messner, che l’ha sempre messa al primo posto.
LOHI: In generale, quali sono le caratteristiche che deve avere un alpinista, fisiche e psichiche?
HB: Essere umile, allo stesso tempo caparbio, che non è il contrario; ed essere
ambizioso ‒ ambire nella vita è importante, a qualunque livello, vuol dire migliorarsi sempre ‒, e creativo. Fisicamente è complesso da descrivere, devi essere, per fare un paragone, come un triatleta che ha forza e resistenza aerobica, ma deve sopportare sforzi molto prolungati, di giorni. Inoltre, bisogna avere l’intelligenza di sapersi ascoltare, per avere un margine di autonomia. Ricordarsi che la cima non è il traguardo, il limite, ma il giro di boa. Arrivato lì devi avere la forza di tornare indietro, di rientrare a casa.
LOHI: Come è cambiato negli anni l’abbigliamento per la montagna?
HB: Le prime guide alpine, che accompagnavano i turisti e i signori inglesi, per non sfigurare, andavano in montagna con il vestito buono. Gli si diceva, scherzando, “se succede qualcosa, siete già pronti… ” Poi i loro vestiti, i cappelli, le giacche e i pantaloni in flanella, sono diventati di moda, e usati per la festa. Se invece parliamo di abbigliamento tecnico, è in continua evoluzione, con una ricerca oggi molto spinta sull’ecosostenibilità. The North Face, ad esempio, ha appena presentato Futurelight (una membrana impermeabile che è permeabile all’aria, nda), un tessuto sintetico con alte prestazioni; una tecnologia che ha messo a disposizione di tutti. LOHI: Nelle conferenze di quest’estate hai parlato di natura e di responsabilità. HB: Durante il lockdown abbiamo visto come la natura riprendeva spazio in città, ma anche in montagna: c’era l’aria più pulita, meno rumore; abbiamo avuto un privilegio, quello di capire l’incidenza dell’uomo. Non vuol dire che non dobbiamo più muoverci, non si può fare. Ma trovare un bilanciamento. Avere rispetto della natura e dell’uomo. E ricordarci che lei non si ferma, trova sempre il modo di uscirne; è l’uomo, invece, molto più fragile.
LOHI: Quali sono i tuoi progetti per il prossimo futuro?
HB: Ci saranno meno conferenze pubbliche ma continuerò a collaborare con Kilimangiaro (RAI3) a parlare di montagna, facendo conoscere le storie belle, di uomini avventurieri. E mi sto preparando per scalare la parete Rupal del Nanga Parbat in Pakistan, in inverno, in stile alpino, lo stile pulito (senza campi base, sherpa e ovviamente ossigeno); è molto difficile, ci vuole tanto allenamento. Le chance di riuscire? Lo 0,01 per cento, ma uno deve provarci.
Incantato dalla posa, dall’allure del gesto di Maria Antonietta nel porgere una rosa nel doppio ritratto di Élisabeth Vigée Lebrun, quello scandaloso, in camicia, e quello mondano, in abito di corte, Francis Kurkdjian aveva dedicato alle addicts della regina, ormai icona pop, il delicato À la Rose. Profumo risolutamente contemporaneo e non retrò, né tantomeno storicamente corretto, a differenza del Sillage de la Reine, ricostruito dal naso franco-armeno a partire dal fortuito recupero di una formula di Jean Louis Fargeon, fornitore attitré di Maria Antonietta a Versailles. A qualche anno di distanza Kurkdjian torna a fantasticare sullo stesso gesto, però al maschile, e inventa L’homme à la rose, un floreale legnoso dallo sviluppo verticale in cui la rosa damascena bulgara e quella centifolia di Grasse si incontrano con un accordo legnoso, introdotto da una nota sparkling di pompelmo in apertura. «La rosa di per sé è come la seta, né maschile, né femminile», osserva Kurkdjian. È piuttosto una lunga tradizione della profumeria, da La Rose Jacqueminot di Coty, la prima interpretazione soliflore della rosa, del 1904, a Nahema di Guerlain e Paris di Yves Saint Laurent, ad associarla indissolubilmente al mondo femminile, nonostante il successo anche presso il pubblico maschile di profumi costruiti sull’accordo rosa/patchouli come Voleur de Roses de L’artisan Parfumeur e in tempi più recenti sull’accordo rosa/oud. Di un’eleganza essenziale, il nuovo Costume National Homme Parfum, firmato da Dominique Ropion (cui dobbiamo Carnal Flower e Geranium pour Monsieur di Frédéric Malle) è un raffinato mix di pompelmo, bergamotto, cardamomo e vetiver di Haiti, utilizzato quest’ultimo in
tre diverse forme, per renderne una pluralità di sfaccettature: quella classica, speziata, il carattere legnoso/secco, assicurato dall’olio estratto con la distillazione molecolare, e il coté smoky, restistuito a partire dall’acqua di scarto della distillazione. Per L’homme Idéal Extrême, Thierry Wasser, perfumeur in house di Guerlain, è ripartito dalla mandorla, la materia su cui era stata costruita l’identità olfattiva del profumo all’origine della franchise L’homme Idéal arrivata ormai a cinque varianti. Una mandorla amara, enfatizzata da un cuore orientale, speziato di cannella, costruito attorno alla prugna e all’eliotropio, su un fondo cedro, patchouli, cuoio e tabacco, lavorato intorno alla fava tonka, per un profumo destinato a sedurre anche le donne, non solo sulla pelle maschile ma anche sulla propria. Citrus Bigarade, nella collezione Acqua Originale di Creed, ha una partenza sferzante di arancia amara, limone, menta e mandarino sul fondo verde e dolcemente terroso del vetiver di Haiti. Sperando di emulare il successo di Pour un Homme, del ’34, uno dei profumi che hanno fatto la storia della profumeria maschile, Caron lancia Aimez-moi comme je suis, profumo gourmand costruito sull’incontro tra nocciola e vetiver. Già nel 1919 con Tabac Blond, il primo femminile a nota cuir simbolo dell’emancipazione delle flapper, e poi con Pour un Homme, caratterizzato dalla forte presenza della vaniglia impiegata prima di allora solo nei profumi femminili, Caron aveva costruito il suo successo sovvertendo gli stereotipi del mercato. La nocciola, con il suo aroma caldo e boisé, verde e croccante, intriga invece il naso Jean Jacques durante un viaggio ad Haiti, in cui realizza che nell’odore delle radici di vetiver, oltre alle note legno, terra e tabacco se ne avvertono anche di nocciola fresca. Presente nella formula in overdose, il vetiver di Haiti è sublimato da pompelmo e zenzero prima di fondersi in un accordo con la nocciola, su una base di legno di cedro della Virginia, tabacco e fava tonka. Con Météore Jacques Cavallier Belletrud costruisce sull’idea di freschezza non solo l’inizio ma l’intero sviluppo verticale del nuovo maschile Louis Vuitton, dove bergamotto di Calabria, mandarino e arancio sono esaltati da neroli tunisino, cardamomo e vetiver di Giava, distillato in modo da eliminarne le note smoky esaltandone piuttosto le sfaccettature d’ambra, pompelmo e terra umida. Cypress & Grapevine, la nuova colonia aromatica Jo Malone London, è legnosa e resinosa, l’equivalente olfattivo di un sottobosco ancora umido di pioggia, dove si avvertono gli odori del cipresso e quello succoso della vite, su un fondo cedro, muschio e vetiver. Colonia Futura di Acqua di Parma, costituita al 99% da ingredienti di origine naturale, è un mix di bergamotto, salvia sclarea e lavanda enfatizzati da accenti di vetiver, pompelmo e pepe rosa. Bvlgari Man Glacial Essence è un legnoso fougère firmato da Alberto Morillas, con una partenza icy di bacche di ginepro, zenzero e geranio, e un cuore di sandalo, iris e artemisia su una base di cedro e muschio. In versione Eau de Parfum, K by Dolce & Gabbana intensifica l’asprezza degli agrumi delle note di testa con bacche di ginepro e cardamomo. Mentre al cuore di geranio, salvia sclarea, peperoncino e lavanda si aggiunge un accordo di latte di fico su un fondo più smoky che nell’originale versione Eau de Toilette.