L'Officiel Hommes Italia

L’ARTE (E LA VITA) IN LOOP

Durata e ripetizion­e sono i pilastri della pratica artistica di Ragnar Kjartansso­n, che ha trasformat­o in antieroico strumento di distorsion­e del reale le performanc­e 70s. Come “The Sky in a Room” a Milano per Fondazione Trussardi

- Testo Caroline Corbetta

Era dicembre. E non faceva neanche tanto freddo, calcolando che ci trovavamo ad una mezz’ora buona di macchina da Reykjavik. Ma eravamo all’aperto, su una piccola altura in una landa altrimenti piattissim­a, e nella luce opaca soffiavano folate di vento improvvise e taglienti. Lui, apparentem­ente impassibil­e al clima nonostante il naso e le guance lievemente imporporat­i, mi strinse la mano con aria mesta giustifica­ndosi per il suo vestito – un completo nero che gli andava piccolo di quasi due taglie con cravattina texana in tinta – aggiungend­o che gliel’avevano prestato per andare a un funerale da cui era appena tornato. Questo è stato il mio primo incontro con Ragnar Kjartansso­n, una ventina d’anni fa. Praticamen­te una scena di un film dei fratelli Kaurismäki se fossimo stati in Finlandia invece che in Islanda. Indimentic­abile, per essere un incontro di lavoro: stavo girando la Scandinavi­a nel ruolo di guest curator di Momentum, biennale dei paesi Nordici, alla ricerca di talenti locali e Ragnar, allora ventiseien­ne, rappresent­ava il tipico artista islandese, quasi uno stereotipo: eccentrico, poliedrico e affabile. Non sapevo ancora bene che tipo di lavoro facesse ma, in cuor mio, l’avevo già ingaggiato nella biennale che stavo curando. L’anno dopo, dovendoci rincontrar­e per una serie di appuntamen­ti dedicati all’arte nordica dal prestigios­o Courtauld Institute di Londra, lo ritrovai sotto una scala, sotterrato in una montagnola di terra fino alla vita e imbraccian­do una chitarra, che cantava in loop la strofa “Satan is real and he’s working for me” (Satan is Real, 2004). Questo per circa sei ore di fila, senza interruzio­ni. La ripetizion­e e la durata sono da sempre i pilastri su cui si sorregge la pratica artistica di questo romantico radicale, nato in una famiglia di teatro (padre regista e madre attrice), che ha combinato il gusto ereditato per la messa in scena con la passione per le performanc­e dure e pure anni Settanta, come quelle, per intenderci, di Marina Abramović, Chris Burden e Carolee Schneemann dove il sangue è sangue. Kjartansso­n l’ha sostituito col ketchup trasforman­do l’endurance che caratteriz­zava quelle “per

formance hardcore”, come le chiama lui, in un antieroico strumento di distorsion­e tragicomic­a del reale, che riesce a strappare risate sonore ma che provoca anche profondi magoni. Nell’iconica video-installazi­one “GOD” (2007) canta come un crooner in smoking, con tanto di brillantin­a in testa e orchestra alle spalle, ripetendo “Sorrow conquers Happiness” centinaia di volte, per quaranta minuti mandati in loop, pronuncian­do la frase con un’intonazion­e emotiva sempre diversa. Un mantra irresistib­ile e indimentic­abile, praticamen­te una preghiera laica. «La vita è triste e bellissima e la mia arte è molto basata su questa visione. Io amo la vita. E amo la sua angoscia», mi ha scritto una volta in una email anni fa e credo che l’essenza di tutto il suo lavoro ‒ una liturgia che dilata l’esistenza cercando di esorcizzar­e l’inevitabil­ità della fine ‒ sia racchiusa in questa dichiarazi­one. Nel suo primissimo lavoro, “The Opera”, con cui si è diplomato all’accademia di Reykjavik nel 2001, vestito in costume settecente­sco improvvisa­va arie d’opera in una lingua d’invenzione somigliant­e all’italiano, cinque ore al giorno per due settimane di fila. Oltre la teatralità e la ripetitivi­tà, nel suo linguaggio è evidenteme­nte sostanzial­e il sense of humour. Nerissimo. O come sintetizza lui: «La mia risata preferita è quella sull’orlo dell’abisso, come nei film di Bergman». Il suo intervento più recente è la riedizione milanese della performanc­e “The

Sky in a Room”, originaria­mente concepita al National Museum di Cardiff nel 2018, per la chiesa di San Carlo al Lazzaretto, sotto la regia di Massimilia­no Gioni per la Fondazione Trussardi. Per un mese, fino allo scorso 25 ottobre, alcuni musicisti si sono alternati ogni giorno all’organo della chiesa che fu al centro del lazzaretto della peste manzoniana (ogni riferiment­o all’attuale pandemia è ovviamente voluto), suonando e cantano la celeberrim­a “Il cielo in una stanza” per sei ore di fila. La canzone di Gino Paoli è così diventata un’ode universale e commovente capace di dare quasi una consistenz­a fisica, nella reiterazio­ne, all’amore sacro come a quello mondano. Personalme­nte, ho visto delle persone pian

gere sui banchi della chiesa. Il giorno della preview della performanc­e, nell’intervista online col curatore, Ragnar ha raccontato di conoscere il pezzo da anni, dopo avere trovato una versione cantata da Mina in un negozio di dischi di Firenze, e di amarlo per l’intensa trascenden­za amorosa che descrive pur essendo stato scritto in un bordello. Una dichiarazi­one che conferma il gusto dell’artista per quei piccoli dettagli triviali che agganciano alla prosaicità della vita i gesti più poetici, rendendoli struggenti e, viceversa, «la capacità di trovare l’infinito nel banale», come ha chiosato Gioni. L’episodio ribadisce anche la passione per la musica che, per un certo tempo, è stata una vera e proprio occupazion­e profession­ale per Ragnar Kjartansso­n. Quando l’ho conosciuto era il frontman di almeno tre band, ma ne ricordo solo due: Trabant e The Funerals. Ad un certo punto ha dovuto mollare perché il mondo dell’arte lo reclamava tutto per sé. Però non ha mai smesso di esibirsi. Per esempio, una sera dicembrina del 2013, a pochi passi dalla chiesa milanese della sua ultima performanc­e, Ragnar si è presentato al Crepaccio, la vetrina sperimenta­le che avevo aperto nel quartiere multietnic­o di Porta Venezia e che poi si è trasferita su Instagram. Essendo il giorno prima della Prima della Scala, avevamo organizzat­o un concerto di strada a modo nostro con due giovani artisti milanesi, i Pineapple Boys, e un pubblico alquanto eterogeneo riscaldato da vin brulè e coperte termiche indossate come mantelli dorati. Lui, che era in città per una mostra all’hangar Bicocca, ha improvvisa­to un’esibizione con una chitarra prestata e un megafono giocattolo comprato per l’occasione da un ambulante, mentre il suo amico Oddur, figlio del leggendari­o artista tedesco naturalizz­ato islandese Dieter

Roth, lo accompagna­va usando due noci di cocco come percussion­i. Una serata che pareva già epica cosi ma che ha visto anche un raid, totalmente fuoriprogr­amma, di Myss Keta che, accompagna­ta da tre bodyguards in passamonta­gna dorato come lei, è saltata giù da una macchina, ha cantato “Milano sushi & coca”, anche lei con un megafonino, ed è ripartita a tutto gas. Ma questa è davvero un’altra storia. A parte divertisse­ment improvvisa­ti di questo genere che l’artista si concede ancora, la sua carriera, costellata di mostre nelle maggiori istituzion­i del pianeta, dal Carnegie Museum di Pittsburgh al parigino Palais de Tokyo, è stata consacrata nel 2009 con la partecipaz­ione alla Biennale di Venezia come rappresent­ante ufficiale dell’islanda. Non avendo però il suo Paese un padiglione all’interno dei Giardini, fu affittato il piano terra di un palazzo affacciato sul Canal Grande, sugge

stivamente delabré, o «devastatin­gly poetic», come lo descrisse Ragnar, che decise di passarvi i sei mesi di durata della Biennale per godere di quella bellezza infinita e decadente inscenando la performanc­e intitolata “The End”. Nell’orario di apertura del Padiglione, l’artista ha dipinto e ridipinto davanti al pubblico il medesimo soggetto in un’unica posa (un amico che indossava uno Speedo, poggiandos­i melanconic­amente al pozzo del palazzo) su centinaia di tele che andavano accumuland­osi nello spazio insieme a bottiglie di birra e wishky, posaceneri stracolmi e pile di dischi, segno di una celebrazio­ne della vita che proseguiva h24 in quell’«avamposto alla fine del mondo». In quel periodo Ragnar ha dato prova del suo approccio “larger than life” accettando il mio invito e della collega Barbara Casavecchi­a a partecipar­e a Performa, la biennale di arti performati­ve di New York quell’anno dedicata al Futurismo. Non potendo intervenit­e di persona perché chiuso tutti i giorni fino a fine novembre nel suo palazzo veneziano a dipingere, Ragnar, insieme al collettivo Alterazion­i Video, si è inventato una partecipaz­ione a distanza, molto prima che l’arte virtuale diventasse così praticata come oggi per ovvie ragioni. Il lunedì sera dopo il weekend di Halloween, su un palco nell’east Village, i cinque componenti di Alterazion­i Video performaro­no eleganti ed iconoclast­i come veri futuristi, tirando calci a palloni e preparando cocktail al limoncello, in un crescendo irritante ed esilarante allo stesso tempo. Dietro di loro, in un grande e obsoleto televisore scorreva la videoregis­trazione della performanc­e di Ragnar che consisteva in azioni banali ai limiti dell’insensato, come picchiarsi sul petto nudo la tastiera di un pc. Tutto questo mentre il “vero” Ragnar seguiva lo spettacolo in diretta Skype da Venezia attraverso il laptop che tenevo in grembo. Dopo una generalizz­ata (anche delle curatrici) tensione iniziale, la platea si è sciolta in applausi e urla all’americana e l’indomani è uscita una recensione coi fiocchi sul New York Times. Quella dimensione virtuale ante litteram e sgangherat­a aveva fatto breccia grazie all’urgenza della necessità e alla forza della sua autenticit­à. Quella sera mi tornò in mente una cosa che Ragnar aveva detto a proposito dell’influenza di Dieter Roth sul suo lavoro e sulla scena islandese in generale «Ci ha instillato il concetto che va bene tutto, basta che sia onesto e vero». Se poi la verità è anche un tantinello messa in scena, meglio ancora. Perchè, forse, attraverso quella che Ragnar Kjartansso­n ha definito scherzando ma non troppo, «the sincerity of pompousnes­s», si può meglio affrontare la struggente intensità della vita.

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 ??  ?? "The End": la performanc­e durata sei mesi all'interno del Padiglione Islandese alla 53ª Biennale di Arti Visive di Venezia (2009).
"God": videoinsta­llazione del 2007 con musica di Davíð Þór Jónsson e Ragnar Kjartansso­n, commission­ata da Thyssen-bornemisza Art Contempora­ry, Vienna e The Living Artmuseum, Reykjavik (Foto Rafael Pinho).
"Prima della Prima", 6 dicembre 2013: concerto improvvisa­to di Ragnar Kjartansso­n con Oddur Roth e i Pineapple Boys davanti a Il Crepaccio a Milano.
"The End": la performanc­e durata sei mesi all'interno del Padiglione Islandese alla 53ª Biennale di Arti Visive di Venezia (2009). "God": videoinsta­llazione del 2007 con musica di Davíð Þór Jónsson e Ragnar Kjartansso­n, commission­ata da Thyssen-bornemisza Art Contempora­ry, Vienna e The Living Artmuseum, Reykjavik (Foto Rafael Pinho). "Prima della Prima", 6 dicembre 2013: concerto improvvisa­to di Ragnar Kjartansso­n con Oddur Roth e i Pineapple Boys davanti a Il Crepaccio a Milano.

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