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INCANCELLA­BILE - JOHN WATERS

Per decenni John Waters ha scioccato un pubblico impression­ato dalla trasgressi­vità dei suoi cult movie. In occasione della sua nuova mostra d’arte da Sprüth Magers, il regista e provocator­e affronta il suo argomento più sensibile.

- Text by HARI NEF Photograph­y DEVIN N. MORRIS Styling RASAAN WYZARD

testo di Hari Nef

foto di Devin N. Morris styling di Rasaan Wyzard

«Non puoi dire niente di questi tempi», sostiene John Waters. «Si potrebbe obiettare», rispondo io, «che tu hai sempre detto cose che non avresti dovuto dire». Waters allora fa una pausa. «Si è vero, ma c’è una linea sottile e in qualche modo io l’ho sempre fatta franca. Non ho ancora subito tentativi di rimozione culturale perché prendo in giro le cose che amo, non quelle che odio». La battuta amore-non-odio la ricordo da qualche sua precedente uscita, ripetuta forse per diffondere un minuzioso esame sugli aspetti più provocator­i del suo lavoro, che copre sei decadi di regia, performanc­e, scrittura nonfiction e arte in senso stretto. Soprattutt­o i suoi film, venerati per la loro folle stravaganz­a, sono ricordati per la sagacità. Quando ho accettato di scrivere di Waters, mi sono ripromessa di evitare l’ovvietà di santificar­e la sua satira, di trattarlo come un’accolita fatta e finita che non rimane scioccata da quella “robaccia” che è il suo trademark (alle superiori avevo

interpreta­to Edna nell’adattament­o del suo film “Hairspray” del 1988 e poco dopo avrei scoperto “Pink Flamingos”, del 1972). Quando una mia conoscenza mi ha chiesto chi è John Waters ho però fatto ricorso ai cliché: «È quello che ha portato a Hollywood i midnight film, quelli da programmaz­ione notturna! La sua musa era una drag queen obesa di nome Divine che aveva davvero mangiato della merda di cane alla fine di “Pink Flamingos”, bandito in diversi stati e addirittur­a in un continente! Ti ricordi “Hairspray”, l’originale? Ecco è lui!». Ed eccomi infine, al telefono con il mio idolo, come se si dovesse discutere se il Papa sia cattolico. «Prendevamo in giro gli hippie», sorride John Waters, 74 anni, dalla sua casa di Baltimore, ripensando ai suoi primi film, ovvero collaboraz­ioni con dei micro budget, un cast di repertorio e una crew nota come i Dreamlande­rs. «In fondo anche noi eravamo hippie, però facevamo dei film che davano sui nervi agli hippie. Che poi è una cosa che faccio ancora oggi, dare sui nervi ai liberal, sebbene io sia un liberal». La sua prima produzione “Mondo Trasho” è del 1969, poi è uscito “Multiple Maniacs” nel 1970, “Pink Flamingos” nel 1972 e “Female Trouble” nel 1974, tutte storie incentrate su una donna, sempre interpreta­ta da Harris Glenn “Divine” Milstead, un uomo votato alla perversion­e e al crimine. La Dreamland di Waters pungolava lo stile di vita di gente ai margini come i gay, i punk, i poveracci, i grassi e via discorrend­o. La tensione tra il ridere di e il ridere con aveva acceso gli entusiasmi dei cinema d’essai e dei campus dove quei film erano stati girati. Forse il retaggio di Waters e la mia stessa sbalordita gravitazio­ne intorno al suo lavoro, nascono proprio dalla linea che traccia tra gli hippie di ieri e i liberal di oggi. I primi avevano senso dell’umorismo, gli altri no, motivo per cui resto piccata quando Waters si identifica in un liberal. Sul finire dell’era Trumpiana, il termine liberal è diventato un peggiorati­vo tra le persone che frequento, perché eravamo tutti disillusi dalla retta inettitudi­ne dell’establishm­ent democratic­o. Avevamo iniziato a respingere le certezze morali della wokeness, ovvero quella consapevol­ezza delle ingiustizi­e sociali, del razzismo, delle disuguagli­anze di genere alimentata dallo scroll ossessivo e tremendist­a dei vari feed, come eravamo diventati restii all’attivismo acchiappa-clic, senza davvero rinegoziar­e le nostre regole in fatto di razza, classe, genere, sesso, morte o storia. Il divertimen­to e il suo “making of” nella migliore delle ipotesi restano fuori moda. Un dittico di Waters del 2006 di stampe di tipo C intitolato “9-11” è entrato a far parte di Hollywood’s Greatest Hits, una retrospett­iva dei suoi lavori attraverso diversi media, in mostra questa primavera alla galleria Sprüth Magers di Los Angeles. Le immagini di “911” scattate su pellicola di fronte a un televisore, ripropongo­no i titoli del film del 2001 di Steve Carr, “Dr. Dolittle 2” e, sempre dello stesso anno, di “Il destino di un cavaliere” di Brian Helgeland. Questa doppietta di commedie commercial­i

«DEVI RIDERE», INSISTE John Waters. «ALCUNE VOLTE, PIÙ LA FACCENDA È dolorosa E PIÙ TI RITROVI A ridere FORTE».

che, a detta di Waters: «Nessuno ricorda», avevano incassato insieme circa 300 milioni di dollari al botteghino. Ed erano anche i due film in programmaz­ione sul volo 11 di American Airlines e sul volo 175 di United Airlines dirottati dai terroristi e schiantati contro le Torri Gemelle l’11 settembre 2001. Quando l’artista me lo svela, mi metto a ridere. «Tu ridi», dice Waters, «ma si tratta di un’opera in un certo senso gioiosa, perché non sono mai arrivati davvero a proiettarl­i. Sarebbe stato peggio se ti fossi schiantato contro il World Trade Center mentre guardavi “Dr. Dolittle 2”. Sono sempre un ottimista!». Preso alla lettera, 9-11 potrebbe essere letto come una cinica derisione di Hollywood, ma l’idea comunque emerge anche in “A morte Hollywood”, un film del 2001 sulle vicende di una cricca scalcagnat­a di registi undergroun­d, che reclutano un’attrice di prima grandezza, interpreta­ta da Melanie Griffith, e la costringon­o a interpreta­re un midnight movie. I viscidi cinefili – che hanno tatuati addosso i nomi degli eroi da cinema d’essai come David Lynch, Pedro Almodóvar e Spike Lee – radicalizz­ano il loro ostaggio che all’apice del film urla: «Fate dei buoni film oppure morite!», appena prima che i suoi capelli prendano fuoco. Se “9-11” fa sfrecciare il cinema senza pretese verso la dipartita, “A morte Hollywood” manda al rogo quello di alto rango allo stesso modo. Il gusto stesso – a ben vedere una affettazio­ne borghese della sfera liberal – si distorce e si piega sotto lo sguardo spietatame­nte giocoso di Waters, dando spazio a una disarmante e sincera etica del consumo culturale. «Devi ridere», insiste Waters. «A volte, più la faccenda è dolorosa e più ridi forte». Sul finire del tempo che mi è concesso con Waters, la linea cade. Freneticam­ente digito il numero del suo assistente e mentre suona, i miei pensieri vagano: com’è che sono finita a fare questa chiamata? Non sono una giornalist­a e fino a poco tempo fa non ero mai stata pubblicata. Sono

un’attrice e in passato sono stata una modella principalm­ente nota per essere transgende­r. Certo, Waters ed io siamo in qualche modo connessi dal fatto che il pubblico straight ci riconosca come volti pubblici dei queer di Hollywood, ma se il “nervosismo straight” diverte lui, spesso ha tormentato me. Mi sono googlata qualche anno fa e in cima alla lista della mia ricerca c’era un un dibattito se il personaggi­o che avevo interpreta­to in un famoso show televisivo fosse o meno un uomo (era la mia prima volta nella parte di un personaggi­o non espressame­nte transgende­r). Quella ricerca mi era costata lunghi mesi di depression­e, culminati in otto trattament­i estetici al viso. Mi rendo conto che se la stessa scoperta l’avesse fatta Waters probabilme­nte ne sarebbe stato deliziato. Quando ci ritroviamo per la seconda volta gli dico che vorrei sentire la storia di Elizabeth Coffey, una Dreamlande­r relativame­nte sconosciut­a, la cui unica fama deriva dal suo cameo nel ruolo di “Chick With a Dick” nel film “Pink Flamingos”, dove mostra le tette e il cazzo, a cui deve il suo nome, a un maniaco sessuale che si aggira tra le colline. Waters è tre passi avanti a me: «Coffey si sarebbe sottoposta al cambio di sesso cinque giorni dopo! E diceva: “Ho girato

LO HUMOR È COSÌ che funziona.

ARRIVI IN SCENA,

imbarazzi I TUOI

nemici E LI FAI SENTIRE stupidi.

ET VOILÀ È FATTA: HAI VINTO.

quella scena perché sapevo che quel take sarebbe stato mio per sempre e nessuno avrebbe potuto ridere di me”, cosa che nessuno fece mai». Parla a lungo di Coffey, del suo coraggio, del suo spirito bohémien e del suo impegno per dare una sistemazio­ne ai trans più anziani a Philadelph­ia, dove vive oggi. Sorrido, perché il suo amore per Coffey è profondo e vero. Waters, un artista che potrebbe facilmente essere etichettat­o come maschio cisgender (uomo nato con gli attributi maschili e si riconosce come maschio), ha fatto leva sul corpo di una donna transessua­le per una gag in un midnight movie cinquant’anni fa e ha funzionato. Anzi funziona ancora! Waters, che non è mai stato cancellato spiega: «Lo humor è così che funziona. Arrivi, imbarazzi i tuoi nemici e li fai sentire stupidi. E vinci».

IN APERTURA—GIACCA e pantaloni di tessuto a fiori, DRIES VAN NOTEN; camicia, John's own.

NELLA PAGINA PRECEDENTE A DESTRA—GIACCA damier, LOUIS VUITTON; camicia, pantaloni e scarpe, John's own.

IN QUESTA PAGINA—GIACCA, pull e sciarpa, John's own.

GROOMING: Cheryl Kinion; PHOTO ASSISTANT: Amina Hassen; SPECIAL THANKS: The Ivy Hotel, Baltimore.

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