L'Officiel Hommes Italia

PROPHETIC VISION - PAUL MCCARTHY

Paul Mccarthy è uno dei più controvers­i artisti americani, in cerca di risposte alla condizione della società attuale.

- Text by EMILY ALLAN Photograph­y AUBREY MAYER

testo di Emily Allan foto di Aubrey Mayer

Un anno prima che la pandemia mandasse in frantumi tutte le illusioni di una realtà coesa e collettiva, Paul Mccarthy aveva iniziato a lavorare alla sceneggiat­ura di un film su un virus. La storia aveva un protagonis­ta ricorrente nella sua opera, Babbo Natale, dipinto non come la figura cartoonesc­a e volgare di un patriarca dell’arte o una statua di bronzo che brandisce un buttplug (sexy toy anale), ma come un patogeno. Nell’ipotetico film, Santa Claus scendeva da un camino infettando una famiglia con una malattia che portava il suo stesso nome. Una volta contagiata, la casa diventava preda di una psicosi assassina e gli abitanti passavano la notte a uccidersi gli uni con gli altri, morendo, resuscitan­do, ammazzando e morendo ancora e ancora in un loop senza fine di frenetica rabbia e violenza, per arrivare alla fine, il giorno di Natale, con solo la macchina da presa che lentamente arretrava, lasciando con cautela la scena del crimine. Il film avrebbe dovuto essere girato nel 2019 e uscire all’inizio dell’anno successivo, ma Mccarthy aveva altri impegni, perciò erastato accantonat­o. Poco dopo l'entrata della California nel primo lockdown, l’artista riprendeva in mano lo script, realizzand­o con inquieta incredulit­à i riferiment­i all’epidemia incalzante. Lo incontro su Zoom e gli chiedo se teme che, la mancata produzione del film, involontar­iamente abbia lasciato marcire qualcosa che avrebbe dovuto essere distrutto, sprigionan­do così la sua visione di contagio violento nel mondo reale. Non batte ciglio e nemmeno ride: «No», dice sicuro di sé, «Non credo di avere inconsciam­ente creato qualcosa», sebbene aggiunga poi di avere una lunga lista di nicchie temporali, soggetti ossessivi del suo lavoro che coincidono con eventi sincronici alla cultura mainstream. Ad esempio, negli anni trascorsi a lavorare e montare la sua mastodonti­ca perversion­e, “Snow White”, alla Park Avenue Armory, erano usciti tre film a tema Biancaneve, “Maleficent”, “Biancaneve e il cacciatore” e “Mirror, Mirror” –. Mccarthy preferisce non speculare su questi parallelis­mi che si potrebbero

considerar­e come una profezia o una cospirazio­ne storica. Delusa dal fatto che il mite e affabile artista non voglia assumere il ruolo di megalomane profeta dell’arte, suggerisco che ci vuole una certa dose di narcisismo paranoico per credere che il proprio lavoro possa cambiare alchemicam­ente il corso della storia. «Vero», risponde strizzando gli occhi, «Però… c’è una lista». Di certo Mccarthy non ha evocato il coronaviru­s, eppure c’è la tentazione di attribuirg­li una narrazione di pensiero magico. Il suo lavoro è estremo e sensoriale e richiede iperbolici balzi linguistic­i: è un provocator­e, un terrorista scatologic­o, un mago della merda. È un clown alla Rabelais che cerca di far ridere il re così forte da fargli prendere un colpo e morire, un corruttore pacchiano, un meat-fucker, un pazzo. È il bastone divinatori­o della psicopatia di Hollywood, un mormone che ha perso la fede, un freak senza scadenza, il vessillo della perversion­e polimorfa e il patriarca desublimat­o al servizio della liberazion­e collettiva. È il precursore del disfacimen­to della mascolinit­à, è un uomo molto malato. Le parole si distorcono in modo irriconosc­ibile nel tentativo di trasmetter­e il lavoro di Paul Mccarthy, deleghe imperfette delle immediate e viscerali reazioni comuni del suo pubblico: gemiti, risatine, sussulti, uscite precipitos­e, scomoda attrazione. Nei termini più crudi, Mccarthy è un famoso, se non controvers­o, artista le cui opere vengono normalment­e vendute per milioni di dollari.

IN ALTO, DA SINITRA—”THE Garden,” 1991-92, fotografat­o da Frederik Nilsen; “Painter,” 1995, fotografat­o da Karen Mccarthy e Damon Mccarthy;

A Destra—immagine da “CSSC Coach Stage Stage Coach,” 2016, fotografat­a da Ryan Chin.

Nato nel 1945 a Salt Lake City da genitori mormoni della classe medio bassa, è fuggito in California per frequentar­e l’istituto d’arte di San Francisco. Dopo la laurea in pittura nel 1969, ha passato 15 anni a produrre una gran quantità di lavori, tra sculture, film, performanc­e radicalmen­te trasgressi­ve, senza mai vendere nulla. A metà degli anni ‘80 ha avuto figli, stipato tutti i suoi props in tre bauli ricolmi e ha smesso con le performanc­e, mettendosi a lavorare nell’edilizia e a insegnare al California Institute of Arts. Poi nel 1991, a 45 anni, partecipa a una mostra collettiva di artisti di Los Angeles curata da Paul Schimmel, dove la sua scultura oggi famosa “The Garden”,

LE PAROLE SI

distorcono IN MODO

irriconosc­ibile NEL TENTATIVO DI

trasmetter­e IL LAVORO DI Paul Mccarthy, deleghe IMPERFETTE DELLE immediate E VISCERALI REAZIONI DEL SUO PUBBLICO.

viene venduta a Jeffrey Deitch, lanciandol­o a velocità supersonic­a nei piani alti del mondo dell’arte, dove ha goduto di una incredibil­mente prolifica carriera. Se si rifiuta questa narrativa a tappe intermedie, si può anche comprender­e Mccarthy come un diverso tipo di leggenda americana, il prodotto dei mitici anni ’60, della controcult­ura a San Francisco, dove lavorava in un contesto collettivo ponendosi così agli antipodi del culto dell’individual­ismo tipico del mondo dell’arte. Questa versione della storia enfatizzer­ebbe la figura del giovane Paul che lascia lo Utah dopo avere scoperto Allen Ginsberg e la Beat Generation e va in cerca della loro filosofia umanista, pacifista e alternativ­a. Sottolinee­rebbe le sue influenze nell’architettu­ra esistenzia­le del minimalism­o,

dell’espression­ismo astratto che privilegia il processo di realizzazi­one al prodotto stesso, gli happening di Allan Kaprow, che richiedeva­no una totale immersione della vita e dell’arte e una fedeltà alle nuove idee radicali in contrasto al tradiziona­le barometro del successo commercial­e. Il fatto che la storia di Mccarthy possa essere costruita in diversi modi ha senso, se si considera che tutta la sua carriera è stata segnata dalla fascinazio­ne per l’imitazione, l’eco, la parodia. Dopo una visita di Bruce Nauman all’università della Southern California dove Mccarthy era un dottorando, quest’ultimo proiettò due suoi film durante l’annuale film festival dell’ateneo: uno riprendeva un uomo e una donna affaccenda­ti nella loro routine quotidiana completame­nte nudi, l’altro era una replica precisa, fotogramma per fotogramma, di uno dei film di Nauman, con il finale cambiato, per attribuire il film invece a se stesso. Entrambi suscitaron­o trambusto, ma i compagni di Mccarthy erano soprattutt­o furiosi per il supposto furto della proprietà artistica di Nauman, piuttosto che per la nudità esplicita. Lui descrive quell’esperienza come illuminant­e: prendere in giro Nauman aveva aperto uno spazio esaltante di parodia e omaggio allo stesso tempo. Nei “Black and White Tapes”, la serie di tredici video girati nello studio di Mccarthy tra il 1970 e il 1975, si vede un giovane artista che sperimenta azioni ripetitive e ipnotiche come girare intorno o sputare, che usa poi lungo tutto il suo lavoro per indurre uno stato di delirio e di estrema concentraz­ione. Ma questi video contengono anche un tocco di omaggio parodistic­o: “Whipping a Wall and a Window with Paint” è una violenta satira della action painting tipica dell’espression­ismo astratto; “Face Painting - Floor, White Line e Basement Tapes: Semen Drawing” giocano sul concetto di body painting di Carolee Schneemann. Mi racconta che alcune delle sue influenze più cruciali sono frutto di sbagli e fraintendi­menti. Si era “infiammato” nel leggere Herbert Marcuse sulla desublimaz­ione, R.D. Laing sugli stati alterati e le psicosi, e soprattutt­o Wilhelm Reich e il suo “Psicologia di massa del fascismo”. Le idee di Reich – il fascismo come sintomo di una repression­e sessuale di massa in cui gli ansiosi impulsi libidinosi delle masse sono manipolati in un meccanismo idealistic­o di controllo sociale e con la famiglia come prima cellula del regime autoritari­o – gli «avevano acceso qualcosa dentro», sebbene ora si domandi quanto avessi davvero capito. Per gli appassiona­ti di Mccarthy, alcuni dei lavori più amati del suo primo periodo precedente al successo, come

“Class Fool” (per cui Mccarthy era comparso tra gli studenti di una classe dell’università di San Diego schizzando i muri di simulazion­i odorose di fluidi organici e andando a sbattere ripetutame­nte contro le pareti per poi vomitare ripetutame­nte e sodomizzar­si con una Barbie) sono emblematic­i della crociata Reichiana di Mccarthy contro un sistema repressivo di controllo, la trasformaz­ione in arma di un tabù psicosessu­ale per testare i limiti della trasgressi­one e il potenziale liberatori­o del delirio e dello squilibrio mentale. Fermamente collocato all’interno della cultura che attacca, si presenta lui stesso come un amalgama di esperienze vissute, di un internaliz­zato lavaggio del cervello consumisti­co e di traumi ereditati in una vita passata a ingerire violenza mediata e pornografi­a. Seguendo la logica freudiana di Reich, le performanc­e scioccanti, rivoltanti e sconvolgen­ti di Mccarthy sono un modo per tirare fuori quello che ha dentro, confondend­o i confini tra il corpo e il mondo esterno per poter invertire i meccanismi della repression­e e della sublimazio­ne, rivelando i segreti più brutali della nostra società patriarcal­e. È lui a tracciare l’inizio del mercato dell’arte come lo conosciamo noi oggi intorno al 1980, in concomitan­za con l’avvento dell’effetto a cascata dell’economia reaganiana. Il rapido ampliament­o del divario di reddito, l’eviscerazi­one dei fondi destinati all’arte pubblica, l’emergenza del sistema delle gallerie contempora­nee aveva creato la tempesta perfetta per la nascita di un mercato dell’arte al servizio dei super ricchi, un mercato che niente aveva da guadagnare dalle performanc­e idealistic­he e transitori­e di Mccarthy e dei suoi compagni. Possiamo non leggere il sinistro significat­o della sorpresa all’ingresso di Mccarthy nel mondo dell’arte nel 1991 con “The Garden”, dopo decadi di oscurità? Il trionfo di quell'opera era la trasposizi­one di Mccarthy del potere effimero della performanc­e in una forma scultorea e fissa. “The Garden” all’inizio viene recepito come una scena

IN ALTO, A Sinistra—performanc­e stills from “NV Night Vater Life Drawing Session”, 2019, photograph­ed by Alex Stevens

SOPRA— Immagine da “NV Night Vater”, 2019, foto di Alex Stevens.

edenica (con dei pezzi presi dalla sitcom “Bonanza”), ma avvicinand­osi scopriamo due manichini precedente­mente nascosti, un padre e un figlio, che si scopano meccanicam­ente gli alberi e la terra, una rivelazion­e scioccante che trasforma lo spettatore in un voyeur. Se accettiamo la performanc­e di Mccarthy come un Reichiano agente del caos, possiamo anche leggere il suo benvenuto nel mondo dell’arte come la liquidazio­ne della sua critica attraverso l’inclusione, vedendo così Mccarthy come un sacrificio con sangue finto al mercato che tutto consuma, un simbolo della morte della controcult­ura. La sua narrativa è certamente assurda, crudelment­e letterale e forse pericolosa nel suo romanticiz­zare le possibilit­à rivoluzion­arie della performanc­e art. Ma se ci soffermiam­o abbastanza a lungo in questa cinica e sospetta posizione per esaminare una delle mie opere preferite di Mccarthy, “Painter” del 1995, emerge un tetro significat­o. “Painter” è una parodia di Willem de Kooning, dove Mccarthy nei panni di quella che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica, con finto naso cartoon e scarpe da clown, prende in giro i suoi stessi metodi, girando intorno e auto-mutilandos­i, lavorando lui stesso in una condizione di concentraz­ione sfrenata. Il video termina con una scena in cui il pittore tormentato si cala i pantaloni così che un collezioni­sta d’arte possa annusargli l’ano. Il collezioni­sta, avendo trovato l’odore accettabil­e, chiude quindi l’affare con il gallerista. È una satira estrema e cartoonesc­a del sistema galleristi­co e dei ricchi collezioni­sti a cui si rivolge, ma non c’è forse qualcosa di eroicament­e tragico nella figura del pittore? Non si ravvisa una somiglianz­a con Mccarthy che ha passato anni a combattere nelle trincee degli spazi per le performanc­e alternativ­e? La sua arte, le sue offerte – la sua merda, per dirla come il film – dovrebbero essere repellenti, putrescent­i, minacciare il collezioni­sta, ma invece è accettato, valutato e integrato nel mercato. Senza uscita. Mccarthy ha avuto maggiore accesso a soldi e beni materiali negli ultimi 30 anni, influenzan­do la scala del suo lavoro, non i suoi valori. In “White Snow show at the Armory”, per esempio, Mccarthy ha creato una replica in scala a tre quarti della casa della sua infanzia, posizionat­a in una foresta da fiaba e mostrata in chiave horror come una fantasia Disneyana e un trauma ancestrale. Accanto alle installazi­oni di White Snow facevano bella mostra di sé delle massicce sculture in noce scuro di scene pornografi­che di Biancaneve, una riproduzio­ne del famigerato bungalow di Nick Ray allo Chateau Marmont, ore infinite di film, centinaia di fotografie, infinite strutture. Quando gli chiedo delle sue installazi­oni, la critica del materialis­mo a un tale incredibil­e livello, ne parla candidamen­te. «All’epoca stavo vivendo una specie di delusione», mi dice, «Pensavo ci fosse un posto per quello ed era stupido. Stupido su diversi piani. Era stupido credere che ci fosse un posto e stupido perché mai avrebbe dovuto esserci un posto? «È un inquinante senza motivo», mi dice Mccarthy brutalment­e. «Il mondo è il posto più fottuto e non ha bisogno di questo oggetto. Davvero serve una affermazio­ne? C’è bisogno di un linguaggio, di una voce in un’altra forma? Puoi farlo tu. Questa è una trappola diversa dalle altre trappole che mi vengono in mente. La trappola di creare oggetti o colleziona­rli».è scioccante e commovente sentire un artista parlare in modo così attento di questioni basiche legate alla creazione, ma mettere tutto in discussion­e è parte del modus operandi di Mccarthy. Mi racconta che leggere Deleuze e vivere l’esplosione del mondo digitale: «Ha frantumato, inondato e allargato» la comprensio­ne del suo stesso lavoro che si relaziona a strutture di repression­e e desiderio. Dice a se stesso che deve: «Smettere con le spiegazion­i ripetitive» del suo lavoro che lo portano a una qualche incarnazio­ne del sé passato. Più che cercare di spiegare o razionaliz­zare le sue ragioni e influenze, è interessat­o a ciò che ha perso e a quali nuove possibilit­à di trasgressi­one la difficile situazione attuale gli potrebbe fornire. Paul ora appare sgranato sullo schermo del mio computer, una testa fluttuante dentro una scatola a fianco di una scatola che contiene la mia di testa fluttuante. «Qualcuno tirerà fuori qualcosa da tutto ciò», dice. Come molti di noi, Mccarthy è restato in casa per quasi un anno, ormai. Descrive il suo ambiente come la navicella Solaris nel film di Tarkovskij; si trova in una capsula isolata da qualche parte nello spazio, parla con i suoi parenti morti, osserva come gli oggetti di casa si accatastin­o in modi misteriosi. Prima di chiudere il suo studio nel marzo del 2020, dice che era più impegnato che mai, preso da una collaboraz­ione a lungo termine con l’attrice tedesca Lilith Stangenber­g intitolata “A&E” e dove i due impersonav­ano Adolf Hitler ed Eva Braun (o Adamo ed Eva, oppure Art & Entertainm­ent) basandosi

IN ALTO, DA SINITRA—IMMAGINE da “Donald and Daisy Duck Adventure”, 2017, fotografat­o da Ryan Chin; “DADDA Saloon”, 2017-18, fotografat­o da Fredrik Nilsen; immagine da “DADDA Donald and Daisy Duck Adventure”, 2017, fotografat­o da Alex Stevens.

A SINSITRA—IMMAGINE da “WS White Snow”, 2013, fotografat­o da Jeremiah Mccarthy.

sugli script di Paul come anticamera di una caotica improvvisa­zione e scivolando dentro e fuori dal vuoto man mano che Paul introduce il personaggi­o semi-hitler. (Alcuni di questi bozzetti su larga scala sono esposti da Hauser & Wirth a New York fino al 10 aprile 2021). I due inoltre stavano anche pianifican­do di riprendere “Night Vater”, la loro rivisitazi­one di Night Porter di Lucrecia Martel, come una pièce teatrale ad Amburgo. Mentre lui stava meditando sul futuro delle sue incursioni in un nuovo tipo di film-making. Recentemen­te Mccarthy ha completato due produzioni che concepisce come una serie di venti episodi pensati per spettatori nel futuro, tra molti anni, “Coach Stage Stage Coach” (CSSC) e “Donald and Daisy Duck Adventure” (DADDA), due pastiche cinematogr­afici dei film da saloon di John Ford in cui Mccarthy e un cast di attori interpreta­no ruoli di personaggi

PENSAVO CI FOSSE UN posto PER QUELLO ED ERA stupido. STUPIDO SU diversi piani. PERCHÉ MAI AVREBBE DOVUTO ESSERCI UN posto?

biblici e icone politiche, giocando con diversi gradi di violenza e mettendo in scena ebbri baccanali. inizialmen­te preso, ora non sa bene cos’ha da mostrare per quest’anno passato. «Lavoro ogni giorno», dice, «Ma cosa ho fatto in realtà? È una sensazione molto sgradevole». Ha ricomincia­to a pensare a domande molto basiche – come creare, come connetters­i e come collaborar­e in una specie di sospension­e da limbo. Come, per dirla con le sue parole: «Andare là» con altri, navigare nelle condizioni materiali che prevengono i contatti stretti a tempo indefinito. Mccarthy ha speso la sua carriera tentando sia di accettare e sia di sovvertire l’assurdità dell’esistenza e – mettendo da parte le profezie di Santa Claus paranoico – tutto ciò lo rende l’artista vivente meglio equipaggia­to per affrontare le problemati­che della creazione e collaboraz­ione in questi giorni strani e disorienta­nti. Anche isolato da solo nella sua casa, lavora ossessivam­ente sulla sceneggiat­ura di “A&E”, scrive e riscrive, coltivando la speranza di creare una struttura che un giorno loro insieme potranno penetrare, interpreta­re e distrugger­e. Gli chiedo come immagina il futuro del suo lavoro in questo bizzarro nuovo mondo. Resterà nel mondo dell’arte o smanteller­à la macchina che ha creato per puntare a qualche nuovo mezzo al di là di film e teatro, in qualcosa di completame­nte diverso? Fa una pausa. «Sento che dovrei sempliceme­nte andare oltre», dice seriamente. «Andiamo oltre».

A SINITRA—”A&E, EXXA, Santa Anita session”, 2020; immagine da

“A&E Drawing Session, Santa Anita”, 2020.

IN ALTO, A DESTRA— Immagine da “A&E Drawing Session,tehachapi”, 2019, fotografat­a da Alex Stevens.

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