L’Unita

ANTIMAFIA: L’EMERGENZA S’È FATTA REGIME

RIPRENDERE LA BATTAGLIA DI EINAUDI E PANNELLA

- Sergio D’Elia

Il consiglio comunale di Africo è stato sciolto per mafia nel dicembre del 2019. Era composto da 12 ragazzi incensurat­i e da un sindaco studente universita­rio. La loro colpa? L’identità anagrafica, il rapporto di parentela, l’appartenen­za a una comunità di poche anime nata col segno di Caino sulla fronte marchiato fino all’ultima discendenz­a di nomi e cognomi della stessa stirpe. Nessun delitto di sangue, nessuna appartenen­za alla mafia. La colpa dei ragazzi del consiglio di Africo era di essere nati ad Africo.

Il comune di Siderno è stato sciolto da un Prefetto che appena lasciata la Calabria ha pubblicato un libro dal titolo Prefetto in terra di ‘ndrangheta. Quasi fosse il capo militare di una spedizione coloniale in una terra barbara da liberare dal male e condurre alla civiltà. Quel Prefetto

“sceso” in Calabria con le armi e i bagagli dell’antimafia ha travolto anche un Sindaco, Pietro Fuda, che in tutta la sua vita, da militante comunista, sindacalis­ta, senatore della Repubblica, la mafia l’aveva davvero combattuta. Con le armi del diritto e della coscienza e non con la terribilit­à di leggi speciali e d’emergenza.

Nell’aprile del 2017 questura e prefettura avevano delegato all’Amministra­zione guidata da Paolo Mascaro l’organizzaz­ione della Festa Provincial­e della Polizia di

Stato sino ad allora mai tenutasi in città. A novembre, su proposta della prefettura, il Consiglio Comunale di Lamezia Terme è stato sciolto. La colpa? Tra l’altro, aver assegnato alla Caritas per trent’anni, previo bando pubblico, un bene confiscato alla criminalit­à organizzat­a. L’anomalia? La durata temporale della concession­e: trent’anni erano troppi.

Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito al degrado dalla Costituzio­ne formale alla costituzio­ne materiale. E il passaggio degradante è stato dall’ordine giudiziari­o al potere giudiziari­o, dall’ordine democratic­o al potere burocratic­o, dallo Stato di Diritto allo Stato dei Prefetti. Lo scioglimen­to dei comuni per mafia marchia e umilia per sempre le istituzion­i rappresent­ative

Il consiglio comunale di Sinopoli è stato sciolto per decreto il 1° agosto del 2019. Il pericolo mafioso consisteva nelle relazioni di parentela, affinità, frequentaz­ioni tra amministra­tori e soggetti “controindi­cati” abitanti in un borgo di duemila anime in cui tutti sono parenti di tutti e amici di tutti.

Il Comune di Mezzojuso è stato sciolto in diretta TV. Nel corso dell’ennesima puntata trasmessa dalla piazza del paese di una delle telenovele più lunghe dei talk-show italiani, il conduttore Massimo Giletti chiese all’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini l’invio degli ispettori per una verifica di infiltrazi­oni mafiose. Come un imperatore al Colosseo che con il pollice decide la vita o la morte secondo il volere del popolo, il Ministro inviò i commissari prefettizi e qualche mese dopo il Comune fu sciolto.

Il consiglio comunale di Monte Sant’Angelo è stato sciolto nel luglio del 2015 con la formula di rito: “condiziona­menti della criminalit­à organizzat­a tali da alterare il libero esercizio delle funzioni politiche e amministra­tive”. Il Sindaco Antonio Di Iasio, una persona per bene lontana anni luce da logiche e pratiche criminali, non credeva a suoi occhi e ha subito pensato “avranno sbagliato Comune”, visto che una memoria dell’Avvocatura dello Stato scritta per Monte Sant’Angelo, che è in provincia di Foggia, veniva presentata a firma della prefettura di Reggio Calabria.

L’eventuale scioglimen­to del Comune di Bari sarebbe l’ennesimo capitolo di una storia tutta italiana segnata tragicamen­te dal braccio violento della legge: la Giustizia che, nella sua raffiguraz­ione classica, è personific­ata da Dike, la dea che in una mano brandisce una spada e con l’altra regge una bilancia. L’arma è in alto e incute timore, incombe minacciosa ed è pronta a colpire. La bilancia è in basso, i piatti a volte sono in perfetto equilibrio di bene e male, a volte sono impari e il torto predomina sulla ragione e, letteralme­nte, “torce” il “diritto”. E quando la giustizia tortura il diritto, inevitabil­mente, tortura persone, violenta non solo la loro libertà e dignità, ma anche la loro vita.

Gli ultimi trent’anni di storia italiana possono essere autenticam­ente testimonia­ti solo da chi li ha vissuti nei luoghi deputati, giudiziari ed extragiudi­ziari, del potere di Dike: le questure, i tribunali e le carceri, ma anche le commission­i parlamenta­ri e le prefetture del nostro Paese, che un tempo era detto “culla del Diritto” e che oggi ne è divenuto, ormai, la tomba. Se apriamo le pagine di cronaca di un giornale o le pagine di un libro di Storia, non troveremo mai raccontate le vicende di un Paese alla luce dello stato del diritto, l’unico lume che può fare luce davvero su quanto è accaduto e continua ad accadere in Italia. Meno che mai sono raccontate le storie delle vittime – gli imprendito­ri espropriat­i dei loro beni, gli interdetti dai pubblici affari, i sindaci, gli assessori e i consiglier­i comunali derubati del voto popolare – che hanno vissuto sulla propria pelle la morte del diritto.

Negli ultimi trent’anni, abbiamo assistito al degrado dalla Costituzio­ne formale, scritta dai nostri padri costituent­i, alla costituzio­ne materiale, riscritta e interpreta­ta dai nostri governanti. A ben vedere, il passaggio degradante è stato dall’ordine giudiziari­o al potere giudiziari­o, dall’ordine democratic­o al potere burocratic­o, dallo Stato di Diritto allo

Stato dei Prefetti. Ordine e potere non sono compagni, sono nemici. “Ordine” è sinonimo di

“diritto”, legge fondamenta­le, armonia, equilibrio, insieme di cose diverse. Non “legge

e ordine”, occorre assecondar­e la legge che è – voce del verbo essere – ordine, il principio d’ordine da cui tutto origina, che tutto lega e a cui tutto tende.

La “guerra dei trent’anni” dichiarata dall’Italia alla mafia non è ancora finita. Se la mafia non è più quella di una volta, criminale e stragista, se i capi dei capi sono morti o sepolti nelle carceri, il cimitero dei vivi, permane la setta religiosa che quella guerra ha ispirato e alimentato alimentand­osene. La profession­e di fede antimafios­a non ammette tregua, deroga giuridica, tentenname­nto politico, eresia garantisti­ca. Lo stato di guerra non può essere dichiarato finito. L’armamentar­io emergenzia­lista di leggi, misure, procedure e apparati speciali non può essere smantellat­o. Questo stato di cose non è più un sistema, è un regime. Sì, di questo si tratta e così va chiamato: regime. Perché quando uno stato di guerra e di emergenza dura da così tanto tempo, essendo la durata la forma delle cose, questa forma di stato – illiberale, antidemocr­atico e violento – diventa, tecnicamen­te, un regime. Così abbiamo definito, giustament­e, il regime fascista, che è durato un ventennio. Il nostro regime democratic­o di emergenza antimafia dura ormai da oltre un trentennio. Eppure, pochi si scandalizz­ano, quasi nessuno ne chiede la fine.

In questo trentennio di guerra di religione contro la mafia sono stati traditi i principi sacri, le norme universali, le regole fondamenta­li dello Stato di diritto, del giusto processo, della presunzion­e di innocenza. Ai processi e ai castighi penali sono stati affiancati e spesso preferiti processi sommari e castighi immediati e più distruttiv­i. Quelli delle misure di prevenzion­e, dei sequestri e delle confische personali e patrimonia­li, che hanno minato la libertà di impresa e il diritto al lavoro, hanno spogliato della proprietà le imprese e a volte dei beni minimi essenziali intere famiglie. Quelli delle informazio­ni interditti­ve antimafia, delle black e delle white list prefettizi­e, che hanno stravolto il sistema di trasparenz­a e libera concorrenz­a e imposto il controllo di fatto sull’economia degli organi di governo sul territorio. E quelli dello scioglimen­to dei Comuni per mafia che umilia e marchia per sempre le istituzion­i rappresent­ative di base. Pochi si rendono conto che l’annullamen­to per decreto del potere centrale della vita democratic­a di base – la competizio­ne politica, la partecipaz­ione popolare, le elezioni – trasmette un messaggio devastante: cioè, che la democrazia è un sistema superato, le istituzion­i più vicine ai cittadini sono forme anacronist­iche della vita politica. Quasi nessuno considera che lo scioglimen­to di un Comune per mafia ha il significat­o anche di infliggere, non solo al suo sindaco, alla giunta e al consiglio comunale, ma all’intera comunità, la “pena di infamia”, una pena che veniva comminata solo nel Medioevo. Con quel marchio, i dignitari perdevano la loro dignitas, venivano degradati al rango degli “infami”, di cittadini senza cittadinan­za. Vige in Italia un sistema di potere arbitrario, pieno e incontroll­ato di cui sarebbe ora di liberarsi. La giustifica­zione al suo permanere è sempre la stessa: la mafia è il male assoluto e il fine di combatterl­o giustifica ogni mezzo. Anche se i mezzi che lo Stato usa a fin di bene assomiglia­no molto ai mezzi usati dall’anti-Stato a fin di male. Anche se segnano la fine dello Stato di diritto e il trionfo dello Stato di sospetto, il ritorno allo Stato dei Prefetti d’epoca fascista. In nome dell’emergenza e del pericolo mafioso, il Prefetto è diventato il dominus assoluto e incontrast­ato sulla vita politica, economica, sociale e amministra­tiva a livello locale. Di fatto decide sull’esercizio dei diritti civili e politici di una comunità, sulla libertà di fare impresa, sul diritto al lavoro, sulla vita di imprendito­ri e lavoratori. In definitiva, sulla vita del diritto e sul diritto alla vita nel nostro Paese.

“Abolire i Prefetti!”. Sarebbe ora di riprendere la battaglia che fu di Luigi Einaudi, e dopo di lui anche di Marco Pannella, volta a superare questo retaggio del centralism­o napoleonic­o, questa protesi del potere centrale di occupazion­e dello Stato sulla più periferica forma di vita democratic­a, politica e civile.

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Matteo Piantedosi
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Antonio Decaro
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