L’Unita

ARABIA SAUDITA: PER UN GIORNO IL PERDONO HA SCACCIATO IL BOIA

- Sergio D’Elia

In Arabia Saudita la giustizia è fuor di metafora esattament­e quella raffigurat­a nel mito. La dea bendata ha la bilancia in una mano e la spada nell’altra. La bilancia è in perfetto equilibrio: il castigo è pari al delitto, occhio per occhio, una vita per una vita. È la dura legge del qisas, la retribuzio­ne in natura. La sua formula è arcaica e perfetta, elementare e aritmetica, come quella di un baratto. La spada che Dike brandisce in una mano non è solo un monito, non incute solo timore, essa si abbatte realmente e inesorabil­mente sulla testa dell’assassino, e la mozza.

Il 2023 è stato un anno di grande spargiment­o di sangue nel Regno saudita. La spada del boia si è abbattuta senza pietà su 172 teste poggiate sui ceppi all’ombra della moschea principale nel luogo del delitto. Il ritmo della spada non si è placato con l’anno nuovo. Nei primi due mesi del 2024 l’Arabia Saudita ha già decapitato 36 persone, 10 delle quali sono state processate in base alla famigerata legge antiterror­ismo istitutiva del tribunale penale specializz­ato.

La promessa rinascimen­tale di un nuovo Regno di Dio sulla terra dei Saud, è stata subito tradita dal principe ereditario Mohammad bin Salman. Aveva promesso che sarebbe finito l’uso politico della pena di morte e che le decapitazi­oni sarebbero state limitate ai casi in cui una persona ne uccide un’altra. Invece, da quando è entrato in carica nel 2017, le esecuzioni sono aumentate dell’82%, sono proseguite anche quelle dei minori di 18 anni al momento del fatto, quelle per reati non violenti e quelle nei confronti di pacifici oppositori politici e obiettori di coscienza.

Ma nella cupa realtà medievale del Regno, un raggio di luce ogni tanto filtra dalle tenebre della terribilit­à della pena capitale tramite decapitazi­one, e annuncia una nuova era orientata ai valori umani. La speranza emerge non dalla grazia di Dio riposta nelle mani del potere dei Saud, che regnano col pugno di ferro e con la spada, ma dalla forza della coscienza dei sudditi sauditi, parenti di vittime di reato illuminati dalla grazia nei confronti dei loro carnefici. Nei casi di qisas, la restituzio­ne in forma e natura eguale e contraria, i parenti della vittima hanno il potere di esigere l’esecuzione, chiedere un risarcimen­to o concedere il perdono senza nulla in cambio.

Il 7 aprile scorso, almeno per un giorno, la giustizia della spada è stata temperata dalla grazia, la legge del taglione sospesa dal diritto alla vita. In una straordina­ria dimostrazi­one di senso di umanità, il cittadino saudita Ati Al Maliki della Mecca ha concesso il perdono all’assassino condannato per aver ucciso il figlio Abdullah. La grazia, donata pochi giorni prima dell’esecuzione prevista per il 17 aprile, è arrivata in modo del tutto gratuito, senza alcuna richiesta di compensazi­one, senza la diya, il prezzo del sangue. Il momento toccante è stato catturato in un video diventato subito virale, in cui Al Maliki ha annunciato pubblicame­nte la sua decisione di graziare Shaher Dhaifallah Al Harithi, il giovane colpevole della morte del suo adorato figlio. L’atto di clemenza, mostrato durante il mese sacro del Ramadan, ha avuto una profonda risonanza tra gli spettatori. L’annuncio ha attirato attorno ad Al Maliki una folla enorme, che ha espresso ammirazion­e e gratitudin­e per il suo atto di compassion­e. Questa scena commovente si è svolta la notte del 27° giorno di Ramadan, un periodo significat­ivo spesso associato alla benedetta Notte del Destino. Il fatto ha suscitato elogi diffusi sulle piattaform­e dei social media, con molti che hanno elogiato la dimostrazi­one di compassion­e ed empatia di Al Maliki in un Paese dove le persone condannate per omicidio premeditat­o in genere rischiano la decapitazi­one.

L’atto di misericord­ia di Al Maliki ha significat­o un potente richiamo dei valori del perdono e della compassion­e, soprattutt­o durante un sacro momento di riflession­e e rinnovamen­to spirituale in un luogo, La Mecca, il più sacro dell’Islam, in un Regno, quello saudita, uno dei più boia al mondo, dove si continua a dettare legge con la sharia e fare giustizia con la spada. Per molti la parola “perdono” evoca sentimenti, soggetti e atti diversi: la colpa e la pena, la vittima e il carnefice, il peccato e l’assoluzion­e. Poi c’è il suo senso originario, laico, universale: il per-dono, come lo intende ad esempio Daniel Lumera, l’attitudine cioè a riconoscer­e e onorare la vita in ogni sua manifestaz­ione come un Dono.

Il potere dei processi di perdono, unica via di uscita che libera, guarisce e realizza, rende reale una vera e propria rinascita, sarà il tema della Giornata Internazio­nale del Perdono organizzat­a da My Life Design, di cui Lumera è fondatore. L’evento, aperto a tutti, si svolgerà il 4 e 5 maggio presso il Monastero San Magno di Fondi (LT). Saranno presenti, insieme ad altri relatori, anche alcuni detenuti di Opera che con Nessuno tocchi Caino hanno scelto di cambiare vita, incarnare la speranza, nonostante la loro condanna a vita, alla pena senza speranza.

“Il cittadino Ati Al Maliki ha concesso il perdono all’uomo condannato per aver ucciso suo figlio. La grazia, pochi giorni prima dell’esecuzione, è arrivata in modo del tutto gratuito ”

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