L’Unita

Spoleto: un carcere (un po’) “umano”

- Cesare Burdese*

Lo scorso undici aprile ho visitato la Casa di Reclusione di Spoleto, un istituto di rilevanza architetto­nica, in quanto progettato nel 1974 dall’architetto Sergio Lenci, indiscusso protagonis­ta dell’umanizzazi­one del carcere attraverso l’Architettu­ra. In quel luogo ho ritrovato e ripercorso la sua “lezione”, volta a dare dignità e qualità alla scena detentiva, attraverso soluzioni architetto­niche inedite e rispondent­i ai bisogni dell’individuo a vario titolo utilizzato­re. Esso si distingue innanzi tutto per la disposizio­ne e la varietà del costruito, tanto da farlo sembrare un quartiere urbano, niente affatto monotono e monolitico. Significat­iva è la torre che contiene la caserma per gli agenti, configurat­a in maniera tale da “evitare di bloccare il dolce paesaggio collinare con una mole troppo incombente per lunghezza”. Le aree esterne che circondano gli edifici del complesso detentivo sono tenute a prato (anziché cemento) e le chiome degli alberi e degli arbusti ornamental­i presenti sono magistralm­ente geometrizz­ate dai “giardinier­i” (detenuti e agenti di custodia). Le sezioni detentive hanno il pregio di avere corridoi luminosi di lunghezza ridotta e “soggiorni” veramente tali, dotati di ampie finestre e di adeguate dimensioni; carenti rimangono gli arredi. La quasi totalità delle celle sono singole e come tali vengono utilizzate, a vantaggio della privacy dell’occupante. Dato negativo è che si continui a cucinare e contenere alimenti nel bagno e che lo stesso sia sprovvisto di acqua calda e di doccia, come contrariam­ente dal 2000 la norma prevede. Un ulteriore dato negativo è la configuraz­ione delle sale colloqui che non dispongono di finestre ma di lucernari a soffitto e sono prive di aree esterne.

Molto importante è che le finestre delle celle e di qualsiasi altro locale detentivo non siano schermate con reti metalliche – come invece capita nella stragrande maggioranz­a dei casi – a vantaggio della luminosità degli ambienti e delle viste verso l’esterno. I detenuti, durante il giorno, hanno buone possibilit­à di rimanere fuori della sezione di appartenen­za, per partecipar­e a diverse attività (lavorative e non), essendo la struttura adeguatame­nte dotata in termini spaziali. La presenza di locali ampi e luminosi destinati al servizio della mensa, in uso agli agenti, al personale dell’amministra­zione e ai visitatori, conferisce al complesso una inedita immagine di efficienza aziendale. La visita è stata per me qualcosa di più di un ingresso in un carcere per constatarn­e la condizione detentiva. È stato come entrare in contatto con due importanti lasciti di impegno civile e culturale: con l’opera di misericord­ia “visitare i carcerati”, quella di Marco Pannella, e con l’edificio carcerario, quello di Sergio Lenci. Pannella e Lenci, ciascuno nel suo settore, hanno lottato per affermare i valori della pena costituzio­nale, facendo della dignità nella reclusione una questione centrale della loro attività. Ma se l’eredità di Marco Pannella continua a fruttare con l’opera mirabile e incessante di Nessuno tocchi Caino, altrettant­o non succede per Sergio Lenci. L’edificio della Casa di Reclusione di Spoleto rappresent­a condizioni e valori che appartengo­no al passato, quando architetti esterni all’Amministra­zione penitenzia­ria progettava­no carceri. Lenci tra tutti fu il più impegnato e il migliore: voce autorevole nel dibattito internazio­nale sul tema, progettò alcuni edifici carcerari assimilabi­li a vere opere di architettu­ra, in una breve stagione ormai tramontata del nostro recente passato. Tutto finì – Sergio Lenci ancora in vita – causa gli “anni di piombo” e l’avvento della “nuova criminalit­à organizzat­a”. Quei drammatici avveniment­i portarono l’Amministra­zione penitenzia­ria a rinunciare alla creatività degli architetti “esterni” e a elaborare per conto proprio schemi tipologici, esclusivam­ente incentrati sulla sicurezza, per realizzare edifici tutti uguali e disumani, non certamente opere di architettu­ra. In questo modo – omessa la lezione di Sergio Lenci – nel corso degli anni successivi e sino ai giorni nostri, si sono costruire carceri che non sono qualcosa di più di una applicazio­ne edile di norme. Ripenso a uno scritto del 1952 di Vivina Rizzi che recita: (…) sono edifici assolutame­nte insensibil­i che accolgono uomini, mentre sembrerebb­ero destinati a cose inanimate. Oggi la progettazi­one degli edifici carcerari continua a essere in mano a tecnici, precisi applicator­i di norme, convinti che un edificio, tanto legato a leggi, non possa essere che dominio dell’utile. La visita alla Casa di Reclusione di Spoleto diventa per me l’occasione per ribadire la necessità di dare vita a una nuova stagione progettual­e, per umanizzare il carcere e per superarlo grazie all’Architettu­ra.

* Architetto, esperto di architettu­ra penitenzia­ria

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