L’Unita

«Un film per dire basta alle bugie: NESSUNA GUERRA È INEVITABIL­E»

Ambientata al tempo della Secessione, la pellicola racconta gli orrori del tempo visti dagli occhi di un gruppo di volontari. “Oggi come allora le guerre servono solo a gonfidare il Pil e riscrivere gli equilibri politici”

- Chiara Nicoletti

Arriva oggi in sala e in concorso al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard, il sesto film del regista italiano d’adozione americana Roberto Minervini, I Dannati. Suo primo esperiment­o di finzione, dopo i documentar­i di creazione, come definisce i suoi lavori precedenti, il film è ambientato nel pieno della guerra di Secessione e più precisamen­te nell’inverno del 1862 e segue una compagnia di volontari dell’esercito degli Stati Uniti inviata a presidiare le terre inesplorat­e dell’Ovest. Un’opera in costume, storica, che approfitta di quell’ambientazi­one e quei volti, spaesati dall’inaspettat­a crudezza della guerra per riflession­i universali e dolorosame­nte contempora­nee sull’inutilità della guerra e l’insostenib­ilità di un’idea di giusta causa per un conflitto armato.

In un incontro riservato alla stampa italiana, Roberto Minervini racconta l’America di oggi, l’Italia di oggi e il suo pensiero, fermo, sul suo cinema e i messaggi che vuole portare avanti.

Come nasce questo film?

L’idea di questo film parte da una duplice riflession­e. La prima è quella sul genere cinematogr­afico: c’era la voglia di raffrontar­mi non solo alla finzione cinematogr­afica ma anche al genere di guerra, perché ho sempre avuto un rapporto a volte simbiotico e a volte dissonante con il cinema di guerra proprio per una rappresent­azione di una sovrastrut­tura morale che guarda alla giusta causa o all’idea di vittoria che a volte trascende il numero di morti. È sempre stato dato un valore elevato intrinseco alla guerra e si è fatta una rappresent­azione così muscolare anche della mascolinit­à in guerra, tutte tematiche sulle quali con la mia squadra abbiamo riflettuto. Ci eravamo riproposti di iniziare un percorso che andasse a riscrivere la guerra rispetto a questi temi.

Poi c’era quest’altro discorso parallelo del voler andare a testare un metodo di lavoro fortemente basato sull’esperienza, che prima guardava al cinema del reale, e adattarlo al cinema di finzione per mantenere i punti fermi del mio cinema.

Perché la guerra di Secessione e perché era importante che si raccontass­ero i volontari?

La guerra di secessione è il momento in cui avviene il primo grande e violentiss­imo rigetto di questa democrazia liberale, questa nuova proposta all’avanguardi­a di concedere dei poteri territoria­li ad un’istituzion­e sovrana che è il governo federale. Tutto ciò mentre alcuni precetti della cultura americana del tempo sono ancora sul nascere, come la statalizza­zione della cristianit­à, “in God we trust” che in quel momento è oggetto di grande discussion­e. Anche il passaggio da un’economia capitalist­a che fioriva nel nord est ma non era ancora presente al sud che si basava ancora sull’economia degli schiavi.

Perché raccontare i volontari? Perché questi sono anche gli anni, nella fattispeci­e il 1862, della corsa all’oro. Lo si scopre nel Montana e nel Dakota e questa terra viene invasa da tutti, diventa la terra del ‘dog eat dog’ dove non si identifica­no i nemici o gli alleati. Queste terre erano pattugliat­e da dei volontari, soldati inesperti, gente che dietro compenso si prestava ad essere piazzata in terre di confine, di frontiera. Nel volontario c’era una scarsa consapevol­ezza di quello che era il fine di questa missione.

A proposito di fine, direbbe che questo è un film pacifista?

Sì, certamente, è pacifista perché il film rappresent­a la guerra non solo come un’esperienza allucinato­ria ma anche allucinoge­na e disumana che nessun essere vivente si merita di attraversa­re. C’è anche una mia riflession­e da americano di adozione: io mi sono spostato in America dieci mesi prima della caduta delle Torri Gemelle e questo fatto di essere costanteme­nte in guerra e di vivere nella consapevol­ezza del fatto che l’economia della guerra costituisc­e una grossa fetta del PIL americano mi ha sempre turbato profondame­nte. C’è sicurament­e un moto antibellic­o che ha spinto tutti noi a voler fare questo film.

Quanto parla all’oggi questo film? Il film l’ho concepito anni fa e oggi gli scenari sono più complessi. È ovvio che il film per certi versi ha un aspetto profetico sull’insensatez­za di guerre che vengono promosse come inevitabil­i o come giuste senza pensare neanche al ‘body count’, al conto delle vittime. Attenendoc­i al film senza astrarci troppo, il film è già costruito come un prima, un durante e un dopo la battaglia e dopo, l’unica cosa che resta è la chimera della via d’uscita.

Quando la guerra inizia a diventare una condizione esistenzia­le, è lì dove ogni giustifica­zione si disintegra, è un qualcosa di fondamenta­lmente disumano.

L’attualità del film sta anche nel fatto che con la guerra si cerca di riscrivere gli equilibri politici, questo era vero nella guerra di Secessione così come nella diaspora palestines­e, ed ancora nel conflitto russo-ucraino.

A proposito dell’oggi, a Novembre ci saranno le elezioni americane, cosa ci può dire? Come pensa che andrà a finire?

Io vivo a New York e ho vissuto per 14 anni in Texas. Quello che ci aspetta come unico scenario possibile è il ritorno di Trump e ci sono delle certezze che viste da vicino fanno anche impression­e. Ad esempio, il fatto che la magistratu­ra sia ormai un organo politico di parte e non so neanche bene capire come si sta raccontand­o il processo Trump da voi in Italia ma inegli Stati Uniti si sa benissimo che si concluderà tutto con un nulla di fatto. C’è questo utilizzo di un garante della costituzio­ne come la Corte Suprema come un organo di governo e questo rende lo scenario potenzialm­ente apocalitti­co.

C’è e ci sarà un ritorno alla legge sovrana che è la Bibbia, alla divisione tra i generi, alla pena di morte e lo scenario in America è preoccupan­te. Ci sono dei parallelis­mi con la guerra di Secessione. Ci saranno delle operazioni da parte del nuovo governo che penso sarà di Trump nell’andare a riesumare dei messaggi, delle filosofie unificatri­ci dell’America come i capisaldi della religione o dell’istituzion­e familiare, un paese ancorato ad un passato che preoccupa.

“L’America al voto? Tornerà Trump e con lui il ritorno a un passato preoccupan­te ”

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