«LA DESTRA AMERICANA FA INVASIONE DI CAMPUS E BIDEN BALBETTA»
“È in atto un tentativo di intimidire le università che sono considerate un polo di resistenza ideologico alla visione del mondo di Trump”, denuncia lo scrittore, docente di giornalismo alla Columbia
La sua è una testimonianza diretta, dal “campus” verrebbe da dire, oltre che un’analisi preziosa per capire meglio cosa sta accadendo nelle più prestigiose università statunitensi e fuori da esse. In una di queste università, tra le più importanti, la Columbia University, Alexander Stille insegna giornalismo. Stille collabora con prestigiose testate come The New Yorker eThe New York Times. Tra i suoi libri, tradotti in Italia, ricordiamo La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace fra Europa e America (Garzanti); La memoria del futuro. Come sta cambiando la nostra idea del passato (Mondadori); Cinque famiglie ebraiche durante il fascismo (Garzanti); Il suo ultimo lavoro The Sullivanians: Sex, Psychotherapy, and the Wild Life of an American Commune Farrar, Straus & Giroux, ha riscosso un successo di critica e di lettori.
Professor Stille, cosa sta accadendo nei campus americani? C’è chi parla di un nuovo ’68, chi evoca la stagione del Vietnam. Tutto questo per la Palestina, o c’è dell’altro?
L’impulso iniziale che ha animato gli studenti è stata la tragedia umanitaria che si sta consumando a Gaza, da quando Israele ha avviato la sua operazione militare dopo l’attacco brutale di Hamas del 7 ottobre. Si è trattato, a mio avviso, di un impulso genuino. Tra gli studenti che hanno dato vita all’accampamento alla Columbia, molti sono ebrei di sinistra indignati dalla politica di Netanyahu e dalla morte di decine di migliaia di palestinesi. Soltanto che quell’impulso ha scatenato una serie di altre reazioni.
Vale a dire?
Gli studenti, come è normale per i giovani, sono animati da una visione di un mondo in bianco o nero, senza sfumature intermedie. Hanno adottato pratiche e slogan un po’ semplicistici, e sbagliati, come “Palestina libera dal fiume al mare”, con una radicalità che ha finito per alimentare un clima che per studenti ebrei, anche se c’erano molti studenti ebrei anche tra i manifestanti, è diventato pesante e che ha generato proteste di segno opposto, con le università che si sono trovate in grande difficoltà nel gestire una situazione che si è fatta di giorno in giorno sempre più complicata. Si trattava di bilanciare il diritto alla protesta con i diritti di altri studenti di non trovarsi in un clima ostile.
Questo periodo di equilibrio instabile è durato per dei mesi, con certi momenti di sconfinamento, in cui le università hanno dovuto “disciplinare” studenti, da una parte e dall’altra, che si erano comportati in modo scorretto, non limitandosi a protestare contro la politica di Netanyahu ma prendendo a bersaglio studenti che professavano altre idee e viceversa, come è avvenuto quando studenti pro-Israele hanno gettato sostanze tossiche su manifestanti filopalestinesi. Un certo equilibrio si è mantenuto, sia pur con difficoltà, fino a quando non è entrato in campo, e nei campus, l’interesse del Congresso che ha cercato di piegare quello che stava avvenendo nelle università agli interessi di parte della politica nazionale.
In che modo è avvenuta questa “invasione” di campus?
A gennaio hanno chiamato i presidenti di Harvard, MIT, University of Pennsylvania, accusandoli di mancanza di vigilanza contro l’antisemitismo. Le loro risposte sono sembrate deboli, per alcuni versi contraddittorie, alquanto generiche, e alla fine sono stati costretti a dimettersi. La presidente della Columbia è stata chiamata a rapporto da questo Comitato congressuale ad aprile. C’è una cosa che andrebbe capita meglio rispetto a quello che si è detto e scritto in Italia.
Di cosa si tratta, professor Stille?
Le grandi università americane, anche quelle private come la Columbia, Harvard, MIT, l’Università della Pennsylvania, dipendono molto dalle sovvenzioni pubbliche, che sono potenzialmente a rischio. Borse di studio, grandi finanziamenti per la ricerca. La Columbia, ad esempio, riceve qualcosa come 1,2 miliardi di dollari all’anno dal Governo federale. Questo è potenzialmente a rischio. Esiste il “Title 6” di una legge che era stata fatta soprattutto per proteggere i diritti civili ma che in questo momento viene utilizzata da questo Comitato del Congresso come una specie di clava contro le università perché, si afferma, non fanno il necessario per difendere i diritti di una minoranza religiosa, gli studenti ebrei, violando così il “Title 6”. Nel far questo contro le università, usano come pretesto l’antisemitismo. In realtà si tratta, a mio avviso, del tentativo della destra americana di indebolire, intimidire, le università che sono considerate un polo di resistenza ideologico alla visione del mondo di Donald Trump e della destra fondamentalista repubblicana. La Columbia si è trovata al centro di un dibattito nazionale.
In che modo?
Mentre la presidente della Columbia, Minouche Shafik, era a Washington il 17 aprile, gli studenti hanno approfittato della sua assenza per creare un accampamento sul prato accanto all’edificio in cui insegno, in mezzo al campus, che è piccolo. Essendo un campus nel cuore di Manhattan, nella New York capitale mediatica degli Stati Uniti, ciò che accadeva nel campus è diventato subito un caso politico e mediatico nazionale. La presidente, avendo preso l’impegno davanti al congresso, di non tollerare alcun episodio o sintomo di antisemitismo nel campus e di rafforzare i regolamenti attorno ad una protesta legittima, ha deciso di chiamare la polizia per sgomberare l’accampamento alla Columbia, ancor prima di far rientro a New York. Tutto questo ha sortito l’effetto, del tutto prevedibile, di rafforzare la protesta, radicalizzandola. E la protesta non ha riguardato più solo gli studenti e il campus ma centinaia di persone si sono riversate ai cancelli della Columbia. Si è creata un’atmosfera di disordine, di estremismo, molto più fuori i cancelli dell’università che dentro. Questa situazione è andata avanti per 12-13 giorni, fino al 30 aprile, quando gli studenti hanno occupato un palazzo dell’università. Nello stesso giorno e nello stesso palazzo di una famosa occupazione nel 1968, durante la guerra in Vietnam. A quel punto, la presidente della Columbia ha chiamato una seconda volta la polizia, che è intervenuta con molta più forza, creando un’atmosfera militarizzata nel campus, con centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa che hanno sgomberato il palazzo, smantellato l’accampamento, fatto decine di arresti, creando così un’atmosfera cupa, negativa nell’università. I professori sono molto arrabbiati, si è generato un clima di sfiducia tra il corpo docente e la presidente. La situazione è brutta. E c’è chi soffia sul fuoco...
Chi, professor Stille?
Beh, Il sindaco di New York, Eric Adams, ha proclamato, senza uno straccio di prova, che l’accampamento alla Columbia fosse finanziato da qualche gruppo esterno, a giudicare dal fatto che tutte le tende del campus apparivano molto simili. Quando è stato chiesto loro di questo, gli studenti hanno risposto che le tende erano simili perché le avevano tutte comprate su Amazon, che le stava vendendo in offerta. Il punto, però, è un altro, ed è altamente rischioso.
Di cosa si tratta?
Per l’importanza mediatica di ciò che avviene nel cuore di New York, e per ciò che rappresenta la Columbia University, l’accampamento propalestinese è stato replicato in molti altri atenei americani, creando tensione e offrendo una occasione d’oro a Trump e ai repubblicani di farne una questione politica centrale nella campagna elettorale per le presidenziali di novembre.
Le università sono bacini di estremismo e di disordine, Biden è impotente e incapace di tenere a bada la situazione, io rappresento l’ordine, il buon senso. Ecco dove siamo ora.
Lei ha fatto riferimento a Biden e ai democratici. Non c’è il rischio che ciò che sta avvenendo nelle università e fuori di esse, complichi ulteriormente la già problematica campagna elettorale dei Democratici per la rielezione di Biden?
Certo che sì. Biden, paradossalmente, rischia di perdere consensi sia a sinistra che al centro. Le sue posizioni, inizialmente molto solidali con Netanyahu, poi cercando di prenderne un po’ le distanze ma neanche tanto, gli hanno alienato molti elettori giovani, elettori neri, l’ala progressista del suo partito. D’altro canto, il suo atteggiamento sempre più critico nei confronti d’Israele e quello più incerto nei confronti delle proteste rischiano di fargli perdere i voti al centro, tra gli indecisi, tra gli elettori ebrei centristi che votano democratico ma sentono una forte appartenenza con Israele. Critica l’operazione a Rafah, non nasconde la sua avversione nei confronti di Netanyahu e il suo governo di estrema destra salvo poi decidere di inviare 1 miliardo di dollari in armi a Israele. Biden si trova nel peggio dei due mondi, perdendo a sinistra e al centro, aggravando una situazione già non facile. Le cose nel mondo politico possono sempre cambiare, ma per ora non è un quadro molto allegro per Biden.
“Il presidente critica l’operazione a Rafah, non nasconde la sua avversione nei riguardi Netanyahu, ma poi decide di inviare 1 miliardo in armi a Israele ”
Ritornando agli studenti. Spesso, e non è solo un vizio giornalistico, si tende ad appiccicare una etichetta alle giovani generazioni. Se lei dovesse definire questa generazione di studenti, in che termini lo farebbe?
Le generalizzazioni non mi sono mia piaciute. Perché costruiscono gabbie omologanti, alimentando stereotipi e parallelismi che non stanno in cielo né in terra. I giovani di oggi, penso ai miei studenti, sono svegli, smart, intelligenti, né indifferenti politicamente né super impegnati. Quelli che protestano, vedono il mondo in bianco o nero, ma questo è tipico dell’adolescenza in genere e non credo che sia una prerogativa di questa generazione.
Non sarebbe mai stato possibile senza i movimenti giovanili e libertari che avevano spazzato l’intero decennio non solo in tutto l’occidente ma in tutto il mondo. La rivolta dilagò in ogni Paese. Fu il primo fenomeno globale, ma anche un fenomeno quotidiano nel quale si intrecciavano impegno pubblico e vita privata
Le date sono sempre opzionali, discutibili. Ma se c’è un giorno che quasi per convenzione segna l’inizio di quella gigantesca onda che sommerse il mondo nel 1968, tanto da aver reso quella data una definizione storica, politica e culturale, “Il ‘68”, quello è il primo ottobre 1964. A Berkeley la polizia aveva fermato uno studente del Core, Congress of Racial Equality. Stava allestendo un banchetto per distribuire materiale contro la segregazione razziale, si era rifiutato di fornire alla polizia i suoi documenti, lo avevano arrestato e caricato nella macchina della polizia. Gli studenti seduti per terra impedirono per 32 ore all’auto di partire. Mario Savio, studente italo-americano, montò sul tetto della macchina bloccata e arringò gli studenti. Nacque quel giorno il Free Speech Movement e il conflitto nell’università californiana portò due mesi dopo all’arresto dello stesso Savio e di altri 800 giovani dopo l’occupazione dell’aula centrale del campus.
Se ci si sposta a casa, in Italia, il ‘68 iniziò il 27 aprile 1966, quando un’aggressione dei neofascisti di Primula Goliardica costò la vita allo studente socialista Paolo Rossi. La sera stessa fu occupata la facoltà di Lettere, e non era mai successo prima. L’occupazione si estese ad altre 8 facoltà, proseguì per una settimana, si concluse con le dimissioni del rettore Ugo Papi. Quella data convenzionale, in Germania, è il 2 giugno 1967, quando nel corso di una manifestazione a Berlino ovest contro la visita dello Scià di Persia fu ucciso lo studente Benno Ohnesorg, raggiunto da un colpo di pistola sparato a freddo.
Ma le date contano quello che contano. Nei campus americani l’organizzazione Sds, Students of a Democratic Society, era nata già nel giugno 1962, la sua dichiarazione d’intenti, il Manifesto di Port Huron, era diventata la piattaforma di una mobilitazione già in atto quando la rivolta esplose a Berkeley. Il movimento per i Diritti civili negli stati segregazionisti del Sud durava già da anni e lo stesso Mario Savio, nell’estate del ‘64, la Freedom Summer, era stato uno dei Freedom Riders bianchi accorsi nel sud per i boicottaggi e le manifestazioni contro le Jim Crow Laws, le leggi che imponevano la segregazione razziale. Presto la guerra nel Vietnam avrebbe versato barili di benzina sull’incendio già in atto. In Italia le riviste e i piccoli gruppi del marxismo eretico avevano pavimentato la strada verso l’esplosione già a partire dalla fine degli anni ‘50. Nella Germania dell’ovest la Sds, Lega degli studenti socialisti, aveva rotto ogni rapporto con la Spd, il partito socialdemocratico già nel 1961 e, sotto la presidenza di Rudi Dutschke, era diventata già dal 1965 il motore di una nuova sinistra marxista giovanile marxista e libertaria: l’incubatrice del ‘68.
Ma anche questa visione più ampia è parziale e infedele. Un fenomeno come il ‘68 non sarebbe stato possibile, e neppure immaginabile, senza i movimenti giovanili e libertari che avevano spazzato l’intero decennio non solo in tutto l’occidente ma in tutto il mondo. La rivolta dilagò in ogni Paese a ovest ma anche a est, nel nord e nel sud del mondo. Presentava alcuni caratteri specifici nelle diverse realtà, come la fortissima spinta antirazzista negli Usa presente solo per solidarietà in un’Europa momentaneamente non più toccata da quel virus a poco più di vent’anni dalla liberazione di Auschwitz, mentre altri erano comuni ovunque. Soprattutto la protesta contro la “sporca guerra” nel Vietnam, che fu determinante non solo negli States e una spinta libertaria contro l’autoritarismo che si sarebbe parzialmente persa negli anni seguenti ma che nei ‘60 e nel ‘68 era invece la tonalità emotiva più marcata ovunque. “Contro l’autoritarismo accademico” campeggiava sul manifesto più famoso dell’occupazione di palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche dell’università di Torino, occupata, sgombrata dalla polizia, rioccupata a ripetizione negli ultimi mesi del 1967. La rivolta in Italia partì da lì, dilagò ovunque, raggiunse Roma nel febbraio 1968. L’occupazione dell’università proseguì per un mese, poi il rettore D’Avack chiese l’intervento della polizia. Il primo marzo un corteo di studenti provò a rioccupare la facoltà di Architettura, fu respinto e gli scontri che seguirono furono una battaglia: non era mai successo che a ingaggiare scontri così violenti e prolungati fossero degli studenti. Valle Giulia diventò il simbolo del ‘68 italiano, che tuttavia non si fermò quel giorno. Proseguì con una serie continua di occupazioni, manifestazioni e incidenti tra studenti e forze dell’ordine per tutto l’anno, coinvolse alcune situazioni operaie e in autunno divampò anche negli istituti medi superiori. L’anno successivo la rivolta sarebbe stata anche operaia, innescando il lungo ‘68 italiano, un ciclo di lotte non solo studentesche e operaie ma sociali destinato a segnare tutti gli anni ‘70.
Il ‘68 ha i suoi picchi di mobilitazione, diversi in ogni Paese. In Germania l’equivalente di Valle Giulia furono le grandi manifestazioni che seguirono l’attentato contro Dutschke dell’11 aprile. Il leader della Sds fu colpito da tre colpi di pistola, per le conseguenze dei quali sarebbe morto 11 anni più tardi, da un imbianchino di estrema destra non legato ad alcuna organizzazione. Gli studenti ritennero però responsabile morale dell’attentato l’editore Axel Springer, la cui possente catena di giornali conduceva da mesi una durissima campagna di demonizzazione degli studenti. Nel corso di manifestazioni che per alcuni giorni misero a ferro e fuoco le principali città della Germania occidentale gli studenti attaccarono quindi soprattutto le redazioni di quella catena. Il “maggio francese” è ancora oggi quanto di più vicino a una rivoluzione sia avvenuto in un Paese occidentale dal secondo dopoguerra. Iniziò con la sospensione di alcuni studenti, tra il cui il leader del Movimento 22 marzo Daniel Cohn-Bendit dalla facoltà di Sociologia di Nanterre, nei sobborghi di Parigi. La protesta alla Sorbonne del 3 maggio innescò i primi scontri con la polizia. Nel giro di due settimane l’intera Francia fu paralizzata, le principali fabbriche occupate, il Quartiere Latino, circondato in più occasioni da barricate, diventò la capitale multicolore ed effervescente di un Movimento che gli studenti volevano insurrezionale ma che il Partito comunista francese e il sindacato Cgt intendevano invece ridurre a un conflitto puramente rivendicativo. Dopo un mese punteggiato da battaglie violentissime e dal dilagare degli scioperi che finirono per coinvolgere tutte le categorie il presidente, il generale De Gaulle, riprese in mano la situazione d’autorità, con un referendum su se stesso dal quale uscì trionfatore. Ma nei mesi successivi ebbe l’intelligenza di varare un programma di riforme sociali che mutarono profondamente la Francia. Negli Usa il 1968 fu probabilmente l’anno più traumatico prima dell’11 settembre: l’offensiva del Tet in febbraio rese evidente che la guerra nel Vietnam correva verso una sconfitta non solo politica e morale ma anche militare e il presidente Johnson rinunciò a correre per la rielezione. In aprile fu ucciso il leader del Movimento per i diritti civili Martin Luther King, i ghetti presero fuoco ovunque. Meno di due mesi dopo a cadere sotto i colpi di un profugo palestinese fu Robert Kennedy. Nei campus la protesta contro la guerra nel Vietnam e contro la discriminazione dei neri proseguiva da oltre un anno quando gli studenti della Columbia University scoprirono documenti che dimostravano il coinvolgimento dell’università nelle ricerche belliche. Le manifestazioni iniziate il 23 aprile furono stroncate dalla polizia di New York dopo una settimana di occupazione dell’Università ma il Movimento si estese ovunque sino alle manifestazioni organizzate a Chicago in agosto, in contemporanea con la Convention del Partito democratico. Finirono in una serie di selvagge aggressioni poliziesche contro i manifestanti arrivati da tutto il Paese e con un processo per cospirazione contro i leader del Movimento destinato a entrare nella storia nera d’America. Il ‘68 fu un fenomeno globale, secondo alcuni analisti il primo. In Cecoslovacchia la primavera di Praga accese un barlume di speranza nella possibilità dei Paesi del socialismo reale di riformarsi dall’interno. I carri armati sovietici spensero la fiammella entrano a Praga in agosto. In Messico le manifestazioni oceaniche degli studenti in contemporanea con l’inizio delle Olimpiadi furono annegate nel sangue. Il 2 ottobre la polizia chiuse la piazza in cui erano radunati gli studenti, Piazza delle Tre Culture, aprì il fuoco dai tetti, uccise 300 persone. Oriana Fallaci, che era in quella piazza e si salvò perché fu coperta dai cadaveri degli studenti suoi amici raccontò il massacro quasi in diretta.
Ma quei momenti alti e roventi furono solo la parte emergente dell’iceberg. Il ‘68 fu un fenomeno quotidiano nel quale si intrecciavano impegno pubblico e vita privata. Gli anni ‘60 erano stati il decennio della libertà, parola ripetuta ovunque, aspirazione che accomunava i Paesi ex coloniali o ancora occupati nel sud del mondo, gli operai della nuova generazione operai che vedevano il lavoro salariato non più come il sogno di una vita migliore ma come una forma appena mascherata di nuova schiavitù, i giovani che volevano scrollarsi di dosso ogni condizionamento autoritario nei Paesi occidentali, le donne stanche dell’asfissia subalterna a cui erano condannate. Nel decennio seguente la stessa energia e la stessa rabbia si sarebbero concentrate sulla richiesta di maggiore giustizia sociale spesso sacrificando in parte, però mai del tutto, l’istanza profondamente libertaria dei ‘60. Nel ‘68, per alcuni mesi, dunque appena un attimo fuggente ed eterno, le due istanze si tennero in perfetto equilibrio e forse la magia del ‘68 dipese da quell’equilibrio mai più ritrovato.