L’Unita

L’OBIETTIVO É: ABBATTERE MORI È COLPEVOLE DI AVER FERITO COSA NOSTRA

FORSE TOCCATO IL PUNTO PIÙ BASSO DELLA STORIA DELLA MAGISTRATU­RA

- Piero Sansonetti

Se Falcone fosse vivo? Probabilme­nte sarebbe in prigione. I due noti piemme di Firenze, che sempre di più assomiglia­no al commissari­o Clouseau, avrebbero ottenuto da un buon Gip un mandato di cattura contro di lui. Con l’accusa di essere il capo occulto della mafia. Di avere fatto le stragi e altre varie bricconate. Anche Borsellino, forse, sarebbe in prigione, magari accusato di avere depistato seppure dopo essere stato ucciso - le indagini sulla sua stessa morte.

Invece ad andarci di mezzo sono solo i sopravviss­uti di quella pattuglia splendida che prima e dopo gli attentati della primavera e dell’estate del ‘92 diede guerra senza quartiere alla mafia e la decapitò. Sicurament­e, tra gli esseri viventi, il generale Mario Mori, e i suoi vice, come il colonnello De Donno, sono le persone che più di tutte hanno contribuit­o alla lotta alla mafia. Hanno catturato, hanno scoperto, hanno confeziona­to dossier preziosiss­imi come quello su mafia e appalti, che poi, purtroppo, fu archiviato e buttato nella spazzatura dalla cordata vincente della magistratu­ra siciliana (recando un danno incalcolab­ile alla lotta contro Cosa Nostra e contro le complicità che la mafia aveva in settori importanti delle imprese del Nord).

Nei confronti del generale Mori e del colonnello De Donno - abbiamo saputo ieri - é stata aperta un’indagine che riguarda le stragi del 1993. Per le quali gli stessi simpatici Piemme fiorentini hanno indagato anche Dell’Utri e Berlusconi. Accusano Mori di strage e di mafiosità. Inaudito. Pazzesco. Voi, da persone di buon senso, direte: ma ci sarà qualcuno che ha il potere di fermare questi Pm fantasiosi! Vi sbagliate: nessuno può fermarli. È così. Lo ha spiegato bene Palamara nel suo libro: se un Pm (meglio due) hanno dalla loro parte un Gip e un paio di giornalist­i amici, assumono un potere sconfinato e incontroll­abile. Che si può abbattere in modo devastante su ciascuno di noi, distruggen­doci. Nessun altro essere umano ha un potere fisico così spaventoso sui suoi simili, almeno in Occidente. Forse il Csm avrebbe la possibilit­à di fermarli, questi Pm, ma non lo fa, perché è paralizzat­o dal gioco delle correnti. E così può succedere in modo naturaliss­imo che l’uomo che ha combattuto la mafia per tutta la vita si trovi al centro di una persecuzio­ne giudiziari­a che non ha fine, da vent’anni. È stato trascinato a processo almeno 10 volte tra primo grado appello e Cassazione. Assolto, assolto, assolto, assolto…. E ci sono pronunce dei tribunali, delle Corti di appello e della Cassazione durissime contro i PM che hanno perseguita­to Mori e contro le loro teorie bislacche. Ma queste sentenze non hanno conseguenz­e. Sono platoniche. I magistrati che hanno portato per campi - per anni - la stampa, l’opinione pubblica, lo Stato, e hanno rovinato vite, e hanno speso patrimoni, non possono in nessun modo essere fermati, e anzi, loro o i loro epigoni hanno il potere di riaprire e riaprire e riaprire indagini - all’infinito - contro la stessa persona innocente.

Capite perché è urgentissi­ma una riforma della giustizia? Per fare tornare lo Stato Italiano al diritto e alla legalità.

Assolto in via definitiva dall’accusa di aver trattato coi mafiosi per far cessare le stragi, ora, a 85 anni, l’ex comandante del Ros è indagato perché non le avrebbe impedite: la teoria surreale della procura fiorentina che poggia su testimonia­nze vecchie di dieci anni e di fatto smentite dai processi

“Sono un imputato in servizio permanente effettivo”, dichiarò una volta il generale Mario Mori. Tenendo fede a questa affermazio­ne, il neo procurator­e di Firenze Filippo Spezia, voluto al Csm dai laici di destra, gli aggiunti Luca Turco e Luca Tescaroli, insieme al pm Lorenzo Gestri, hanno iscritto nel registro degli indagati l’ex comandante del Ros e direttore del Sisde.

Prima accusato, e prosciolto in via definitiva, di aver trattato con i mafiosi per far cessare le stragi, il generale è ora accusato dell’esatto contrario, e cioè di averle favorite. La tesi, a dir poco surreale della Procura fiorentina, si fonda, come si legge nell’avviso di garanzia notificato a Mori la scorsa settimana nel giorno del suo 85esimo compleanno, su una testimonia­nza vecchia di dieci anni dell’allora maresciall­o dei carabinier­i Roberto Tempesta. Il sottuffici­ale, effettivo al Nucleo tutela patrimonio artistico di Firenze, agli inizi del 1992, tramite l’antiquario Agostino Vallorani, era entrato in contatto con il terrorista nero Paolo Bellini, che poi sarà condannato all’ergastolo per la strage della stazione di Bologna, per cercare di recuperare delle opere d’arte rubate qualche mese prima dalla Pinacoteca di Modena.

La circostanz­a, fino a quel momento sconosciut­a, divenne pubblica nel 2014 durante il processo Trattativa Stato-mafia. Incalzato dalle domande dei pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene, Tempesta disse che Bellini “invece di parlarmi dei dipinti di Modena mi consegnò alcune fotografie di diciassett­e dipinti rubati a Palermo nel 1985. Mi disse che era riuscito ad infiltrars­i nelle organizzaz­ioni mafiose, sconvolto dalle morti di Falcone e Borsellino, e che voleva fare qualcosa”.

Bellini consegnò a quel punto un biglietto a Tempesta con cinque nomi di boss mafiosi, tra i quali Pippò Calò, Luciano Liggio e Bernardo Brusca, dicendogli che loro avrebbero permesso il recupero dei quadri in cambio degli “arresti domiciliar­i, della libertà provvisori­a o della libertà condiziona­ta, anche solo di mezz’ora”. Il terrorista aggiunse di voler far ciò per “acquisire fiducia” e in quel modo “conoscere i futuri obiettivi da colpire in modo da prevenire in tempo utile qualsiasi cosa”. “Bellini - proseguì Tempesta - voleva che fossi io a seguire la sua infiltrazi­one in quanto si fidava di me ma io gli dissi che non avevo le capacità organizzat­ive e conoscitiv­e per seguire la vicenda”, aggiungend­o che “la strada non era facilmente percorribi­le”. “Se tu dici che si preparano attentati ai monumenti non saresti legittimat­o a seguire la situazione?”, replicò immediatam­ente Bellini, sottolinea­ndo l’effetto destabiliz­zante se si fosse sparsa la voce che la mafia voleva abbattere la Torre di Pisa.

Tempesta spiegò a Bellini che l’unica cosa che avrebbe potuto fare era riferire tutto all’allora colonnello Mori, in quel momento numero due del Ros. Cosa che effettivam­ente fece recandosi a Roma presso la sede del Ros il 25 agosto di quell’anno. Dopo aver raccontato quanto accaduto a Mori, Tempesta chiese che su Bellini “fosse fatta una valutazion­e accurata”, sottolinea­ndo che “qualora fosse stato valutato positivame­nte” era disponibil­e ad essere uno “specchiett­o per le allodole”. Mori, sempre secondo il racconto del sottuffici­ale in aula, avrebbe replicato che alla prima favorevole occasione era pronto ad inviare qualcuno per parlare direttamen­te con Bellini. “Mi fece il nome di Ultimo”, sottolineò Tempesta. “Raccontai al colonnello anche di quello che Bellini mi disse sui monumenti, sulla Torre di Pisa. Io non capivo dove volesse andare a parare. Mori mi fece capire che forse lui aveva intuito qualcosa ma io non chiesi più nulla”, aggiunse inoltre Tempesta.

Dell’incontro con Bellini, Tempesta ne avrebbe poi parlato anche con il colonnello Roberto Conforti, in quel periodo comandante del Comando tutela patrimonio artistico. Ma né quest’ultimo né Mori gli avrebbero ordinato di scrivere una relazione di servizio sui colloqui avuti con Bellini.

Che la “trattativa” Mafia-carabinier­i del Comando tutela patrimonio artistico non fosse andata in porto lo racconterà più avanti lo stesso Bellini chiamato a testimonia­re al processo contro Matteo Messina Denaro. “Antonino Gioè (mafioso di Altofonte e fra gli esecutori delll’uccisione di Giovanni Falcone, ndr) mi disse che Cosa nostra ne aveva una con i piani alti del Governo”, dirà ai magistrati Bellini che aveva conosciuto il boss siciliano durante una precedente carcerazio­ne. Il terrorista affermò anche che Gioè gli avrebbe confidato di pensare a un attacco allo Stato colpendo i beni culturali, ad iniziare dalla Torre di Pisa. Secondo il pentito Giovanni Brusca, invece, fu proprio Bellini a far balenare a Gioè l’idea degli attentati al patrimonio artistico: “Se ammazzi un magistrato ne arriva un altro. Se butti giù la Torre di Pisa distruggi l’economia di una città e lo Stato deve intervenir­e”. A poche ore dagli attentati di via Palestro a Milano e di San Giovanni e San Giorgio al Velabro, Gioé, indicato fra gli ‘accusatori’ di Mori, sarà trovato senza vita in carcere impiccato a una corda. Dopo un decennio quella testimonia­nza, di fatto smentita dai processi, è ora alla base della nuova incolpazio­ne per Mori. Una beffa.

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Mario Mori
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