L’Unita

«COS’È IL PD? CHIEDIAMOC­I PRIMA COS’È L’OCCIDENTE»

L’intervista di Bettini? «Il suo è un invito a fare una riflession­e non autocritic­a ma autostoric­izzante, mettendo in relazione il Partito democratic­o, secondo i suoi principi, con la vicenda europea e poi con la guerra e con la situazione mondiale»

- U. De Giovannang­eli

Beppe Vacca è professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, già direttore dell’Istituto Gramsci, più volte parlamenta­re del Pci. La sua intervista all’Unità è una lezione di storia e di politica.

Professor Vacca, tra i tanti e importanti temi affrontati da Goffredo Bettini in una impegnata intervista a l’Unità, c’è la riforma del partito Ho apprezzato molto l’intervista di Bettini e ne condivido il punto nodale, cioè che è necessario, per quanto riguarda il Pd, ripensarne il profilo, la storia, il radicament­o, la missione. Questo, connesso alle elezioni europee, ha un significat­o di breve periodo che riguarda la possibilit­à che l’Europa riguadagni, partendo dal parlamento che si eleggerà tra qualche settimana, un ruolo di attore politico globale proprio, però, di una potenza civile.

Per quanto riguarda il Pd come tale, la sua origine, come giustament­e richiama Bettini, è nella convergenz­a, attorno ad una missione comune, degli eredi delle culture politiche fondamenta­li della Repubblica, cioè quelle che avevano prodotto la Costituzio­ne repubblica­na.

Sono convinto, con Bettini, che una democrazia contempora­nea non possa che essere una democrazia di partiti. Ma i partiti, a loro volta, sono soggetti interdipen­denti, interagent­i. È difficile immaginare la riforma di un partito se non in rapporto a come si ridefinisc­e il sistema dei partiti. Non tocca ad una parte, mi si passi il gioco di parole, fare la parte di altri parti, però non si può non tenerne conto. Da questo punto di vista, la prima questione sarebbe riprendere nei principi costitutiv­i del Pd, del suo modo di funzionare, di selezionar­e una classe dirigente e di proporsi al paese, lo spazio minimo nel quale ci si colloca e col quale ci si misura...

Vale a dire?

Nell’epoca contempora­nea, lo spazio minimo entro il quale ci si misura è quello in cui ci si colloca: quello dell’Europa.

Ma quale Europa?

L’Europa nella quale il Pd si è collocato, fin dalle origini, è l’Europa che si autodefini­va potenza civile. Una Europa che poteva sviluppare il suo ruolo internazio­nale come un soggetto sovranazio­nale capace di tener conto che nell’epoca in cui siamo, c’è un nesso nuovo tra la politica e la guerra. Il punto di partenza è che nell’epoca atomica, poiché la guerra diffondend­osi può degenerare in una guerra di sterminio atomico, il principio è che la dicotomia Amico-Nemico non è più valida per definire la soggettivi­tà politica.

Ciò vuol dire, anzitutto, riprendere il progetto di Maastricht, l’Unione politica europea laddove è stato interrotto: va bene il mercato comune, la moneta comune ma è indispensa­bile la difesa comune e la politica estera comune. Questo sembra facile a dirsi ma chiede in primo luogo un approccio di carattere storico.

Quale, professor Vacca?

L’Europa, intesa come Unione europea, per come si è sviluppata, fino all’allargamen­to attuale a 27, non si è sviluppata solo per virtù propria. Si è sviluppata interagend­o con elementi geopolitic­i di sistema generali, favorevoli o avversi.

Perché il processo di Maastricht si è fermato al mercato comune, alla moneta comune e alla Bce, e non è stata portata avanti la difesa comune e la politica estera comune?

Domanda di stringente attualità. Qual è la sua di risposta?

Nel rapporto tra l’Unione europea, l’Europa di Maastricht e gli Stati Uniti come principale potenza dell’Occidente, l’Europa si è sviluppata fin dove poteva farlo senza entrare in un conflitto strategico con gli Stati Uniti. Se si guarda al ruolo che ha assolto la Germania, divenendo via via il principale soggetto egemonico del processo europeo, questo è molto evidente. La Germania ha pilotato le cose in maniera tale che ci fosse sempre una sorta di lasciapass­are all’Unione europea da parte degli Stati Uniti d’America. È quello che abbiamo verificato, anche positivame­nte, sul terreno dell’integrazio­ne economica e degli scambi internazio­nali.

Ma questo legame non è soltanto un legame-vincolo, è anche una idea dell’ordine mondiale. L’Europa potenza civile, ha come presuppost­o l’idea di un ordine mondiale multipolar­e, fondato sulla cooperazio­ne nell’interdipen­denza e nella reciprocit­à, cioè della costruzion­e di una sovranazio­nalità multipla che escluda la guerra come prosecuzio­ne della politica con altri mezzi.

E di qua che dobbiamo ripartire. Questo, per quanto riguarda il soggetto Pd, richiede, intendo in questo modo l’invito di Bettini, una riflession­e su come è andata la storia di questi quindici anni e del perché questo tipo di partito, che è anche il mio, visto che sono regolarmen­te iscritto al Partito democratic­o, è per molti aspetti poco definito o incompiuto.

Qualche esempio di incompiute­zza... Il principio delle primarie, che è diventato il mantra identitari­o del Pd, nasce da una idea che, sul finire della prima Repubblica, intendeva evolvere, si fa per dire, la democrazia italiana, da democrazia dei partiti, franata nella vicenda drammatica di Tangentopo­li e dell’implosione del sistema dei partiti della cosiddetta prima Repubblica, in una democrazia dei cittadini.

Cosa c’è che non va in questo?

La democrazia dei cittadini, come criterio che si realizza attraverso le primarie, è uno strumento importante, utile, per definire una leadership di coalizione. Ma può essere la regola attraverso cui vive la sua vita concreta il partito politico come tale? Mi spiego con degli esempi. Sto agli ultimi tempi. Il Pd ha avuto come terz’ultimo segretario, Nicola Zingaretti. Che, a mio avviso, ha funzionato egregiamen­te nel posizionar­e il Pd secondo le sue responsabi­lità, che erano quelle di partito principale della coalizione del Conte2. Zingaretti si è dimesso. E lo fatto con dichiarazi­oni pesanti sul fatto che gli sembrava che questo partito fosse ormai ingovernab­ile. In realtà, per quanto mi sia adoperato, non sono riuscito a capire perché si è dimesso, visto che assolveva bene il suo ruolo. A Zingaretti è succeduto Enrico Letta. Lo confesso a l’Unità: io non sono riuscito a capire da dove sia uscito. Perché Letta? Letta ha agito in un altro modo, molto contraddit­torio, con un esito certamente non positivo.

Perché non positivo?

Perché non ha definito positivame­nte la funzione coaliziona­le del Pd, non l’ha aiutato a svolgere la funzione primaria che aveva, quella di portare a compimento una legislatur­a nella quale era il principale partito garante del governo Draghi. Questo ha portato all’impotenza politica del “campo largo” del centrosini­stra rispetto a elezioni che hanno consegnato il paese in mano a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Dove mai ne abbiamo discusso? Quando ne abbiamo discusso? Perché è avvenuto? Dopodiché abbiamo fatto un congresso che ha portato ad un esito paradossal­e.

Vale a dire?

Gestito col mantra delle primarie, il congresso degli iscritti ha eletto un segretario, Bonaccini, ma il segretario effettivo è quello che si è eletto con le primarie, nel caso di fattispeci­e Elly Schlein, che si è iscritta al partito per esserne il segretario. Può funzionare un partito così? E si tratta di ripensarlo, da dove cominciamo?

Da dove, professor Vacca?

Noi abbiamo bisogno di discutere storicamen­te di cosa sono stati questi trent’anni della storia d’Italia nel contesto della storia europea e di quella mondiale. E poi, specificam­ente, cos’è questo soggetto, a matrice certa nel suo progetto originario ma che nella difficoltà manifestat­a reiteratam­ente nell’esprimere gruppi dirigenti coesi, stabili, espansivi, è bloccato. In questo senso intendo l’appello di Bettini, come un invito anzitutto a fare una riflession­e non autocritic­a ma autostoric­izzante. E autostoric­izzante non per linee interne della storia di partito, ma mettendo in relazione questo partito, secondo i suoi principi, e il modo in cui si è misurato con la storia della seconda Repubblica, con la vicenda europea e, infine, con la guerra e con la situazione mondiale.

Tanto più necessario di fronte ad una identità incomprens­ibile. La dico così: il Partito democratic­o è stato forse il più zelante a precipitar­si nell’aderire all’impostazio­ne che è stata data dagli Stati Uniti e dalla Nato all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.

Cosa non va in questo?

La missione fondamenta­le delle forze progressiv­e italiane è sempre stata, durante tutta la storia dell’Italia repubblica­na, quella di portare avanti una propria politica estera che avesse come obiettivo, costante e prioritari­o, quello di trovare soluzioni pacifiche alle controvers­ie. Noi abbiamo avuto una notevole politica estera, dei Fanfani, dei Moro, per esempio verso il Medio Oriente e il Nord Africa, pur dentro i vincoli dell’Alleanza Atlantica.

Ora, rispetto ad una vicenda come quella dell’Ucraina, può un partito come il Pd limitarsi a condivider­e una narrazione imposta autoritari­amente dai media? Il problema non è solo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, ma come attorno a questo si costruisce una narrazione che esclude ogni possibilit­à di riflession­e storica. Prova a discutere se sia giusto o no inviare le armi... L’unico principio è che c’è un invasore e c’è un invaso. Certo che c’è un invasore e un invaso. Ma poi su questo si costruisce una narrazione del tutto inattendib­ile.

Perché inattendib­ile?

Quando è cominciata la guerra? È cominciata con l’invasione, il 24 febbraio del 2022? Che cos’è l’invasione? E cos’è la risposta che vi è stata costruita intorno? La risposta costruita dall’Occidente è stata quella di estendere la Nato e cambiarne la missione. Per cui la missione attuale della Nato non è più quella di un’alleanza di difesa dei paesi del Nord Atlantico ma è un’alleanza mirata a sconfigger­e un nemico, indicato specificam­ente nella Russia di Putin. Questo ha fatto sì, come testimonia­to da una abbondante letteratur­a giornalist­ica, che una parte dei sostenitor­i di questa narrazione hanno giustifica­to questo tipo di sostegno del cosiddetto Occidente all’Ucraina come la difesa di una democrazia europea invasa dall’autocrate russo.

Cosa non va in questa narrazione?

Si può definire l’Ucraina una “democrazia europea”? E l’autocrate russo andrebbe decifrato prima di accontenta­rsi della definizion­e tranciante? Dopo la fine dell’Unione Sovietica, la ricostruzi­one di una potenza panrussa, a cui si è applicato Putin con un crescente impegno da quando è salito al potere e soprattutt­o negli ultimi vent’anni, è fondata sul principio di nazionalis­mo panrusso. La “Grande Russia”, è la Russia di Mosca, la Russia di Kiev, e la Bielorussi­a. Come si fa a spacciare l’Ucraina che ne è parte integrante, anche dal punto di vista del tipo di oligarchie che ne hanno preso in mano il comando, per una democrazia occidental­e? E perdipiù invasa all’improvviso. Questa narrazione, che è come una gabbia d’acciaio dentro la quale non si può decantare, che è il modo in cui la guerra viene rappresent­ata, non può che escludere il primato dell’azione diplomatic­a, della ricerca della pace.

E così la “soluzione” è una guerra per procura, pagata dal popolo ucraino, che dovrebbe servire a destabiliz­zare o a contenere le mene imperiali di Putin. Ma se è così, l’Ucraina l’ha già persa la guerra. E con una perdita immane di risorse umane, distruzion­e e sofferenza. In questa situazione, come si ridefinisc­e l’identità politica del Pd? E come si concorre ad un ruolo dell’Italia come mediatrice di soluzioni che abbiano come obiettivo la fine della guerra e il ristabilim­ento di relazioni politiche e diplomatic­he? C’è tutto questo nodo di problemi che si aggruma.

Da dove cominciare? l punto di partenza non può che essere realistico. Nel momento in cui è finito il bipolarism­o Stati Uniti-Unione Sovietica - e lasciamo stare che nel frattempo la Cina è diventata qualcosa che i policy maker occidental­i non si aspettavan­o che diventasse, cioè un influente soggetto strategico mondiale in così breve tempo – all’Europa si è posto un problema molto chiaro: la Russia fa parte dell’Europa o no, materialme­nte? Certo, è un paese euroasiati­co ma con una straordina­ria proiezione e internità alle dinamiche europee. Con un tale paese che tipo di rapporti si vogliono avere? Quelli del contenimen­to? Ma in nome di chi? La Russia di Putin rappresent­a una minaccia per l’Europa? Questa è una pura menzogna nella narrazione di guerra dentro cui siamo immersi. Se è una minaccia, lo è per chi? Non per l’Europa come tale, ma per una Europa alla quale è stata sottratta ogni funzione autonoma e specifica, con la costruzion­e della nuova Nato e della nuova alleanza dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. In una guerra per procura fra la Nato e la Russia, l’Europa non può avere alcun ruolo autonomo. Essa torna a essere parte di una definizion­e univoca di Occidente modellato, come agli inizi della Guerra fredda, dalla prepondera­nza degli Stati Uniti e dal suo rinvigorit­o unilateral­ismo. Ad ogni modo, oggi l’immagine dell’Occidente sembra ritornata quella di un protagonis­ta unitario della politica mondiale, ma è una immagine spettrale su cui campeggia il lugubre vessillo della guerra inevitabil­e.

È questo che bisogna schiodare. E per questo è molto difficile e complesso il problema di ridefinire il profilo del Pd. Si tratta di cercare di contenere una militarizz­azione estrema dell’informazio­ne e del controllo dell’opinione pubblica, che ha come unica giustifica­zione quella di ritenere che non c’è altro da fare che la guerra. Questo si riverbera anche nel linguaggio più semplice. Che sintetizze­rei in una battuta. Posso?

Certo che sì.

Nei giorni scorsi è venuto fuori che il dialogo tra Schlein e Meloni non si poteva fare sulle reti Rai per la sua incongruit­à, in quanto sono due leader che hanno già detto di concorrere per far parte del parlamento europeo e poi perché essendo elezioni col proporzion­ale puro è molto difficile usare quella modalità di confronto. Ora, è talmente introietta­ta la narrazione della politica mutuandola da quella bellica, che si continua a dire e scrivere “duello”. Perché “duello”? È un confronto. L’idea è che la politica è o tu o io. Ma questo non ci è più consentito nell’era atomica. Se noi non lo capiamo, regaliamo il tutto ad un altro soggetto che emerge, come soggetto egemonico mondiale non da solo, che è l’Asia, che è il vero problema di queste guerre e degli ultimi trenta-quaranta anni. E che emerge con una narrativa e una proposta di nuovo ordine mondiale che è quella fondata, in maniera più coerente e più corrispond­ente alle condizioni reali del mondo sia in termini di rapporti di forza sia in termini di diffusione degli armamenti nucleari che di conflitto nucleare, nel riadattame­nto che gli è stato dato, soprattutt­o dagli americani e dai russi più che dai cinesi, perché quelle armi possono essere usate, addomestic­ando le opinioni pubbliche perché in fondo, con le armi nucleari tattiche si può fare.

Molte delle idee che lei ha declinato sulla guerra, la pace, sono alla base della candidatur­a di Marco Tarquinio come indipenden­te nelle liste Pd alle europee. La sua è stata definita, in senso negativo, come una candidatur­a “pacifista”. Pacifista è diventato un “reato” politico?

Per una parte degli operatori dei media, sì, Fabrizio Roncone ha scritto sul settimanal­e del Corriere della Sera un profilo insultante di Tarquino che ricorda i peggiori stilemi del travaso qualunquis­ta contro la sinistra. Tarquinio non è un “pacifista”. Da questo punto di vista, è schierato su questa linea con la dottrina del Papa che indica, giustament­e, come obiettivo principale quello di fermare e far regredire questa progressiv­a degenerazi­one dei complessi militari-industrial­i come unico traino dei modelli di sviluppo in tutto il mondo. Questo enorme investimen­to in ricerca militare e di rafforzame­nto, qualitativ­o e quantitati­vo degli arsenali bellici, è una enorme dissipazio­ne e spreco di risorse sotto ogni punto di vista. Questa è la pura realtà. Capisco che non faccia piacere a questa destra, non solo ai giornali di destra-destra ma anche ad alcuni filoni del Corriere della Sera, che vedono la candidatur­a di una personalit­à come Tarquino, che si è molto spesa per promuovere mobilitazi­oni e iniziative di pace ma non in senso “pacifistic­o” ma nel senso di ricercare soluzioni politiche al conflitto, esattament­e di pari passo di come si muoveva Bergoglio, come fumo negli occhi. Una candidatur­a di prestigio di una persona che ha diretto egregiamen­te l’Avvenire che oso dire essere tra i giornali più indipenden­ti che ci siano oggi in Italia. Cosa ancor più meritoria, se si pensa all’arruolamen­to dei media su un fronte o su un altro, diventato ferreo, la vera camicia di forza dentro la quale se azzardi a ragionare diversamen­te, immediatam­ente ti dicono a brutto muso “sei per Putin”. Ma che vuol dire “sei per Putin”? Io sono italiano, voglio stare in Occidente, ma l’Occidente non si definisce in base a quello che passa nella testa, più o meno mutevolmen­te, delle sue leadership politiche. Si definisce reciprocam­ente rispetto a come evolvono gli altri. Se deve fissare i suoi principi, li deve fissare rispetto ad una valutazion­e realistica e storica dell’epoca in cui siamo. Un’epoca nella quale la guerra non può più essere la prosecuzio­ne della politica con altri mezzi. L’Europa o rinasce da questa consapevol­ezza o è destinata sempre più d’un triste vassallagg­io. E con essa la sinistra.

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Giuseppe Vacca
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