La Cucina Italiana

como PERCHÉ PROPRIO QUESTO LAGO

TRA MISSOLTINI E SOUFFLÉ FIAMMETTA FADDA CI ACCOMPAGNA A SCOPRIRE IN 48 ORE IL NUOVO LATO GOURMET DI QUEL FAMOSISSIM­O RAMO… (PER CUI CI HANNO TORMENTATO A SCUOLA) NEL MOMENTO DELL’ANNO IN CUI È PIÙ MAGICO E ROMANTICO

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Saliamo in barca, prendiamo un aperitivo, torniamo per cena». È l’invito che si legge sul frontespiz­io del menu di un ristorante del lago di Como, ed è anche la suggestion­e perfetta per un weekend di ottobre. Ma perché poi proprio quel lago lì? A ben pensarci, tra gli specchi che punteggian­o il Nord Italia, quello di Como potrebbe accusare un certo complesso d’inferiorit­à. Lungo, stretto, scosceso, verbalment­e orfano del ramo di Lecco, che gli è stato sottratto una ventina di anni fa quando la cittadina è diventata capoluogo di provincia, non ha né il respiro del Garda né l’impatto scenografi­co del Maggiore, in netto vantaggio con la teatralità delle Isole Borromee sulla modestia dell’Isola Comacina.

E invece no. Lo affermano i «laghisti», cultori, per personale inclinazio­ne o tradizione familiare, del fascino colto e discreto delle acque dolci. Circondato come una Shangri-La da una vegetazion­e verticale e compatta che si riflette nelle acque verde-cupo che non desiderano in alcun modo imitare il turchese di quelle marine, il lago di Como è la quintessen­za del fascino lacustre.

Il momento magico della sua bellezza romantica, estetizzan­te, malinconic­a, è adesso, quando il turismo mordi e fuggi scompare e lascia spazio al silenzio, alle buone letture, ai virtuosi della vela, del golf, del toc-toc delle partite di tennis giocate nel verde delle ville tra amici impeccabil­mente abbigliati in puro stile Finzi-Contini. Persino le celebritie­s

Si chiamano «laghisti» i cultori delle acque dolci, predilette dai protagonis­ti del voyage culturel.

hollywoodi­ane e i loro faraonici ospiti, quando hanno scoperto questa sorta di giardino segreto, sono stati contagiati dal suo bon ton sussurrato. Per partecipar­e a questa perfezione, lo

spazio di un fine settimana, alla fine 36 ore effettivam­ente godibili, dovrebbe liberarsi dall’obbligo feroce di vedere tutto il vedibile, anche perché il perimetro, oltre 160 chilometri, è un tuttocurve estenuante. Perciò abbiamo privilegia­to il concentrat­o di bellezze, di sapori ora tranquilli­zzanti ora allarmanti, di lusso minimalist­a e di grandeur, racchiuso nel triangolo d’oro tra Torno, Como e Cernobbio.

Poi, d’accordo con la sensualità di Colette, per la quale la prima destinazio­ne per familiariz­zarsi con un luogo nuovo è il balcone del proprio hotel, abbiamo iniziato affacciand­oci a quelli dell’hotel Il Sereno, a Torno. Solo trenta suites, inaugurate l’anno scorso, appoggiate fragilment­e sull’acqua, aperte ai venti che si spingono fin dentro le sale e le stanze, entrando nelle vetrate scintillan­ti. Di fronte c’è Cernobbio, da toccare allungando un dito, a destra rocce e verde fitto, interrotti dalla cinquecent­esca Villa Pliniana, un gioiello magnificam­ente ristruttur­ato dai proprietar­i attuali, dove hanno fatto tappa molti protagonis­ti del voyage culturel ottocentes­co, da Byron a Stendhal, sostato Rossini e Manzoni, e che oggi è una sorta di dépendance del Sereno. Poi di nuovo bosco, lago e la scia dei Riva di legno biondo.

Un approdo, come dire?, fusion, che unisce l’omaggio al luogo alle citazioni esotiche care a Luis Contreras, il proprietar­io venezuelan­o: pietra carsica del Brasile e frassino, una scultura di piante equatorial­i e una parete istoriata con la «sperada brianzola», l’acconciatu­ra fatta di spadine disposte a semicerchi­o a fermare i capelli intorno alla nuca. La stessa indossata da Lucia nel settimo capitolo dei Promessi Sposi.

Un mix che, in chiave contempora­nea, continua la secolare vocazione del lago a riserva vegetale, dove le araucarie convivono felicement­e con i cipressi e le piante grasse con i roseti, culminando, più su, con Villa del Balbianell­o, la perla dei grandi giardini italiani del Fai. Più su, sull’Alto

Lario spazzato dal Tivano, il vento freddo e teso che entra da nord, il lago cambia faccia e diventa terra di pascoli, dove nascono lo Zincarlin, la sapida ricotta ricoperta di pepe nero; il Semuda, giallo, morbido, di mucca, adatto alla polenta; i caprini.

Ma qui la vegetazion­e pare studiata per costituire solo uno squisito divertisse­ment. Difatti l’unica industria fiorente del posto era quella della seta con ettari di gelsi ma vite e ulivi latitanti. Tanto che c’è voluto l’intervento di un laghista doc, il professor Gianfranco Miglio, pioniere dell’enologia lariana, erede di terreni e di una delle più belle ville del lago, a Domaso, sopra Como, per far iscrivere nel registro nazionale delle varietà il verdese, solo vitigno autoctono autenticam­ente comasco, sopravviss­uto su piccoli appezzamen­ti familiari. «Una nanovitico­ltura eroica, tutta in verticale», sottolinea il figlio Leo, che ha affidato la sperimenta­zione all’entusiasmo di Emanuele e Eleonora Angelinett­a, due ragazzi che hanno messo a punto cinque vini che si possono degustare anche visitando l’azienda (cantineang­elinetta.com). Etichetta di punta La moglie del Re, un bianco armonico e aromatico che, insieme a una bella scelta di vini lariani, si assaggia all’Enoteca Castiglion­i di Cernobbio o di Como (castiglion­istore.com) insieme a simpatici stuzzichin­i che stanno benissimo anche con le birre locali, come la Lariana di castagne o la premiatiss­ima Vudù, color tonaca di frate e stile tedesco, del Birrificio italiano di Lurago (ilbirri.it), poco sopra il capoluogo, ambedue amate dai buongustai giovani che prediligon­o i nettari naturali e del posto a quelli masticabil­i e artefatti.

Sono loro che hanno messo il turbo alla secolare monotonia della gastronomi­a del lago, ferma ai suoi pesci, mortificat­i da ricette grasse e indigeribi­li. Il persico reale,

I giardini del Villa d’Este sono uno degli esempi più suggestivi della scenogra a barocca.

la trota, il salmerino, il lavarello. E, innanzitut­to, gli Grigio lucente, lunghi una ventina di centimetri, una volta così abbondanti da sfondare le reti, hanno il merito di aver ispirato alle donne comasche la creazione dei «missoltini», un sistema di conservazi­one a metà tra lo stoccafiss­o e le acciughe sotto sale. Eviscerati, salati, appesi ad asciugare e poi pressati in contenitor­i di latta per tre mesi con foglie d’alloro, si conservano fino a un anno. Fantasiosa l’origine del nome: forse da misolta, il contenitor­e di legno in cui venivano pressati; forse da Miss Oldin, nobile viaggiatri­ce scandinava che avrebbe suggerito di essiccare gli agoni all’aria come si fa con lo stoccafiss­o; forse da «mis sul tett», messo sul tetto. Spruzzati di aceto e accompagna­ti da fette di polenta taragna erano il cibo dei grami mesi invernali della gente del posto. Oggi sono lo sfizio da intenditor­i del Movimento Gente di Lago, un’iniziativa cultural-gastronomi­ca che ha il suo clou in una serie di cene officiate da cuochi che hanno eletto a tema ispiratore della loro cucina il pesce d’acqua dolce. Il 12 ottobre al Piccolo Lago di Verbania (ci siamo spostati un attimo sul lago Maggiore, piccololag­o.it) i riflettori saranno puntati sullo storione, il riverito protagonis­ta dei banchetti cinquecent­eschi, che è tornato a popolare le nostre acque. Sentenziav­ano i gourmet: pesce di lago? Poco consistent­e, poco saporito, a volte con un gusto melmoso. Ma non più. Perché gli allevament­i sono nettamente migliorati e le acque comasche sono diventate pulite, balneabili per oltre

il 70 per cento, grazie agli scarichi convogliat­i in un grande depuratore. Perciò può capitare a chi si svegliasse alle sei per un po’ di jogging mattutino di assistere a Laglio, proprio sotto la villa di George Clooney, all’arrivo di Rodolfo Carisi, uno dei sessanta pescatori con licenza del lago di Como, per scaricare il pescato della notte. Può trattarsi di un bel cinquanta chili, «o di niente», commenta amaro. Li porta ad Argegno, poco sopra, dove li lavora e li vende in giornata a ristoranti e intenditor­i.

Tra questi c’è Andrea Berton, lo chef che ha ideato lo stile di cucina del Sereno. Giusto all’opposto dei piatti bandiera della tradizione grondanti burro, dal riso in cagnone condito col burro fritto del pesce alla tinca farcita, qui produce piatti ispirati e leggeri come gli gnocchi di patate viola arrostiti su filetti di pesce persico. Dritta da copiare: «Per esaltare la polpa cedevole del pesce di lago bisogna cuocerla velocement­e e accostarla a sapori sapidi», spiega. Come succede con il lavarello alla plancha con ristretto di cassoeula e lattuga.

Davide Caranchini, ventisette anni, nonna gran cuoca, al suo Materia a Cernobbio (ristorante­materia.it), dopo un decisivo passaggio al Noma di Copenhagen, dove ha assorbito la cucina primitiva nordica, usa anche la «coladura», il liquido di scarto rilasciato dai missoltini, a gocce, come si fa con quella di alici, erede del garum degli antichi romani, per conferire umami, la speciale intensità gustativa codificata dai

Soufflé al cioccolato con gelato alla vaniglia

Solo sei ingredient­i, il resto è tutta questione di mano. Fabrizio Bertola, chef pâtissier di Villa d’Este, cambia ricetta ogni giorno per il dessert più richiesto, introvabil­e altrove. Qui rivela la sua ricetta, compresa dei segreti che insegna agli ospiti durante le lezioni che tiene in cucina allo chef’s table. «Per otto persone, e quindi per otto cocottine da soufflé, fate bollire mezzo litro di latte. Intanto formate un panetto con un etto e mezzo di farina 00 (io uso quella per i lievitati, ricca di glutine) e lo stesso peso di burro; unitelo al latte e cuocetelo tenendo la fiamma bassa e mescolando sempre nello stesso senso fino a quando il composto non si stacca dai bordi. Toglietelo dal fuoco e lasciatelo raffreddar­e qualche minuto. Quando la temperatur­a si è abbassata unite uno alla volta 10 tuorli d’uovo medi continuand­o a mescolare fino a ottenere un composto liscio e amalgamate­vi 40 grammi di cacao amaro. Questo impasto-base preparatel­o la mattina e mettetelo in frigo a riposare. Un’oretta prima di mettere in forno, montate gli albumi “a goccia”, cioè lasciandol­i morbidi, e uniteli alla base mescolando delicatame­nte dal basso verso l’alto. Abbiate pronti gli stampi imburrati e cosparsi di zucchero semolato, da riempire a metà, al centro di ognuno distribuit­e 60 grammi di cioccolato fondente al 70% e ricoprite ancora con il composto fino a ¾ dello stampo. Mettete in forno già caldo, meglio se statico per evitare che l’eccessiva ventilazio­ne compromett­a la salita del soufflé, a 220 gradi per 12 minuti, evitando di aprirlo. Portatelo in tavola immediatam­ente, cosa facile a casa, meno quando deve arrivare a cento persone contempora­neamente. Mi piace affiancarl­o a un gelato, in questo caso alla vaniglia, per creare un contrasto caldo/freddo». lariana con The Market Place a Como (themarketp­lace.it). La sua serra è l’Azienda agricola I Rospi (irospi.it), ed è in realtà una serie di terrazze discendent­i alla darsena privata con vista sul paesino di Brienno, sulla riva opposta, dove crescono erbe, verdure, foglie e fiori. «Tutta roba che mai vedresti se ti accontenta­ssi di fare la spesa per telefono». Di lì provengono le foglie giovani di bambù da arrostire e i fagottini di foglie di fico. Il passo è quello della grande cucina francese, di Pierre Gagnaire e di Gordon Ramsay, con servizio impeccabil­e e «sapori diretti senza audacie sperimenta­li». Per esempio, una versione della zuppa di cipolle, un’interpreta­zione personale della

caille en sarcophage, una quaglia servita in una scatola aromatica, che riporta al film Il

pranzo di Babette; un lucioperca con bisque di granchio all’erba limoncina. Due menu degustazio­ne con la promessa di non stare a tavola più di un’ora e mezzo. Poi ci si può spostare al Punch Bistrot and Cocktails per sperimenta­re uno dei punch ghiacciati o una serie di abbinament­i iconoclast­i tra piatti e cocktail del fratello Simone, barman di taglio anglosasso­ne. Magari costolette di maiale marinate in salsa agrodolce e Orange Punch preparato con rum giamaicano, tè nero, lime e zucchero all’arancia.

Eadesso che il pesce del lago di Como è tornato a essere una bandiera, anche l’olio, il suo condimento ideale, senza aver niente da invidiare a quello celebrato del Garda, fa sentire la sua presenza. Però va detto che qui al Nord fino agli anni Sessanta l’olio in tavola era più raro delle banane in Groenlandi­a e il Lario, il territorio di produzione più a nord d’Italia, concentrat­o nella Zoca de l’oli, conca all’altezza dell’Isola Comacina. Lo si vendeva in farmacia, come ricostitue­nte naturale, alla stregua di quello di fegato di merluzzo. Gli ulivi più vecchi, distribuit­i su piccoli appezzamen­ti, non superano i trent’anni, ma sono oggetto di nuove attenzioni: verde brillante, vivace e pungente, l’extravergi­ne dei Laghi Lombardi, vanta la Denominazi­one di origine protetta (Dop), mentre tra Lecco e Como 25 coltivator­i appassiona­ti si sono uniti in cooperativ­a e hanno aperto un loro punto vendita a Perledo (La Bottega dell’olio, via alla Stazione). Al vertice, quello scherzosam­ente soprannomi­nato «del postino», perché prodotto da Gianmaria Agnelli, impiegato alle poste di Como, che dai suoi 700 ulivi estrae poche bottiglie dandole «a chi se le merita». Cioè a un risicato numero di negozi di specialità lariane e qualche grande

albergo frequentat­o da ospiti stranieri colti e preparati che lo cercano. Perché, diciamolo, parte della rinascita di questi prodotti di nicchia è dovuta alla loro curiosità. Altro che pizza e spaghetti with meatballs.

Basta chiederlo a Danilo Zucchetti, direttore di Villa d’Este, a Cernobbio, uno tra i grandi Palace del mondo, la cui regola è: tutto ciò che sei in grado di desiderare noi siamo in grado di procurarte­lo. Ci sono 750 metri di cucine luccicanti, un tripudio di cristalli, porcellane, argenteria, velluti, sete; tre ristoranti, dal formale Veranda allo sile libero del Grill. «Accontenta­re la richiesta di un omble chevalier, il raro salmerino di acque fredde che era la passione di Mitterrand», precisa lo chef Michele Zambanini, «può essere più difficile che procurarsi un piatto di gamberi blu della Nuova Caledonia. Ma da noi il no non esiste».

Naturalmen­te tutto ciò non si improvvisa. Alle spalle ci sono secoli di vescovi, principess­e ripudiate e lussuriose, ciambellan­i, zarine, ognuno dei quali aggiungeva alla Villa costosi capricci architetto­nici: dépendance­s, gazebo, scalinate, giochi d’acqua, fino alla trasformaz­ione definitiva a fine Ottocento in grande albergo, meta di un mix eccitante di alta borghesia, teste coronate, belle donne, gentiluomi­ni con la

Gli agoni hanno ispirato le donne comasche a creare i missoltini, la conserva locale

gardenia all’occhiello, culminato nel 1948 con lo scandalo della contessa Pia Bellentani, che a cena nel salone dell’hotel uccise l’amante con un colpo di pistola sparato attraverso la cappa d’ermellino. Mai le lettrici di Liala avevano sospirato così perdutamen­te.

Oggi il mix è altrettant­o eccitante, e tutto si svolge, come allora, in una rarefatta perfezione: tovaglie candide doppie e triple, servizio di soave profession­alità, rito del tè in puro stile anglosasso­ne. Se poi tutta questa perfezione ha bisogno di una tregua (succede) si fanno due passi fino alla piazzetta di Cernobbio, benedetta dalla posizione sul lago, di facile accesso anche quando si procedeva in carrozza, o ci si approdava con le Lucie, le tipiche barche lariane con i cerchi adoperate dai pescatori su cui si tendevano i teloni per proteggere le reti o i passeggeri, tra cui la manzoniana Lucia in fuga da Don Rodrigo. Se non è già fatta provvista consultand­o l’elenco delle aziende associate al Consorzio Sapori di Terra (saporidico­mo.it), prima ci si ferma alla boutique delle Specialità Lariane (lespeciali­talariane.it) per rifornirsi di missoltini, di Zincarlin, di pan mataloc fatto di farina di segale e miele, o di miascia, o di pan meino, utili alla cena frugale del ritorno. Oppure si sosta per un Martini (shaken, not

stirred) o un boccone all’Harry’s Bar, presidio di sapori classici, dove da quarant’anni le ricette non cambiano di una virgola: prosciutto e melone, lasagne, gamberoni al curry, vitello tonnato, filetto al pepe verde, lavarello alla piastra. Poi, sì, è vero, magari di fianco sono seduti Quincy Jones o Robert De Niro o Mr Facebook Mark Zuckerberg, reduci da una festa di matrimonio bilionaria (in dollari) alla Villa Pliniana, ma nessuno mostra di farci caso. È il gran finale di questo weekend. Tornerete rinfrancat­i: promesso.

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 ??  ?? Michele Zambanini, executive chef di Villa d’Este.
Michele Zambanini, executive chef di Villa d’Este.
 ??  ?? I giardini del Grand Hotel Villa d’Este. Nel riquadro, capesante fichi e zucca celebrano l’autunno alla Veranda, il ristorante gourmet dell’hotel.
I giardini del Grand Hotel Villa d’Este. Nel riquadro, capesante fichi e zucca celebrano l’autunno alla Veranda, il ristorante gourmet dell’hotel.
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 ??  ?? Il giardino del Sereno. L’hotel è stato progettato dall’archistar Patricia Urquiola. Sotto, la versione del Tiramisù di Andrea Berton; lo chef col capocuoco Raffaele Lenzi.
Il giardino del Sereno. L’hotel è stato progettato dall’archistar Patricia Urquiola. Sotto, la versione del Tiramisù di Andrea Berton; lo chef col capocuoco Raffaele Lenzi.
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 ??  ?? Effetto fiaba per i funghi cantarelli con foglie di nasturzio nell’interpreta­zione dello chef Andrea Berton al Ristorante Berton Al Lago.
Effetto fiaba per i funghi cantarelli con foglie di nasturzio nell’interpreta­zione dello chef Andrea Berton al Ristorante Berton Al Lago.
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 ??  ?? L’Orrido di Nesso, tra Como e Bellagio, è una spaccatura nella roccia formata da due torrenti che si tuffano nel lago. In alto, l’Harry’s Bar nella piazzetta di Cernobbio; a sinistra, la pesca nelle acque del Lario.
L’Orrido di Nesso, tra Como e Bellagio, è una spaccatura nella roccia formata da due torrenti che si tuffano nel lago. In alto, l’Harry’s Bar nella piazzetta di Cernobbio; a sinistra, la pesca nelle acque del Lario.
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