La geniale attività delle bolle
LUCA DINI È SCESO NELLE GALLERIE DI GESSO, LÀ DOVE AVVIENE IL MIRACOLO DELLO CHAMPAGNE DOM PÉRIGNON. COME VATE UNO DEI PIÙ GRANDI CHEF DE CAVE DEL MONDO. CHE HA LASCIATO IL SEGNO
Ci sono gusti e profumi il cui ricordo indelebile separa, in una vita, il prima dal dopo. La mia iniziazione al tartufo bianco: ero un bambino piccolo. Una pesca perfetta che ha fatto sparire tutte quelle venute dopo. Un Barolo vecchio più di me che vent’anni fa, a una fiera vinicola a New York, un produttore mi sbicchierò di nascosto sotto il banco. E poi, l’esperienza che ho vissuto lo scorso luglio in una piacevolmente grigia e fresca giornata tra le morbide colline della Marne.
Pane fatto nettare
Ero a Épernay nella Résidence de Trianon, storica sede di Moët & Chandon, in una intima sala da pranzo. Sul piatto davanti a me una tenera piastrella di Chaource, resa ancora più profumata da una copertura di scaglie di tartufo nero, costituiva il degno epilogo di un semplice ma celestiale pasto francese cucinato – nota di orgoglio nazionale – dal bolognese Marco Fadiga, da un anno chef de cuisine della maison. Non è che avessimo bevuto benzina fino a quel momento, ma quando la signorina in guanti è tornata con una nuova bottiglia nascondendone sotto un panno l’etichetta si è capito che stavamo per fare la conoscenza con qualcosa di speciale.
Non fingerò competenze da sommelier che non ho, non vi tedierò con sentori di albicocca e ritorni di tabacco. Vi dirò solo che mi è stato versato – in calice: guai a parlare di flûte e di coppe da queste parti – lo Champagne più straordinario che io abbia mai gustato e che forse mai gusterò. Capace di «parlare» con quel formaggio dal profumo di noce e di terra, e di rendere ancora più indimenticabile una già indimenticabile Tatin di pesche.
Ha il sentore di lievito del pane più buono del mondo fatto nettare, la maturità complessa di una bottiglia importante, ma anche la vivacità impressionante di un vino che a ogni sorso esplode in tutte le sfumature dei suoi ingredienti vegetali e minerali, come fosse sgorgato ieri dalle zolle gessose della Champagne. Una freschezza che mi ha lasciato incredulo quando il panno è scivolato via e ho letto l’età sull’etichetta: «Champagne Dom Pérignon Vintage 1973». E la leggendaria sigla «P3».
La fabbrica dei ricordi
«Io non creo vini, creo ricordi», mi dice Richard Geoffroy mentre passeggiamo, due ore più tardi, nei giardini dell’austera abbazia di Hautvillers, sulla riva opposta della Marne. Penso che a me ne ha creato uno grosso così, e mentre guardo la sua faccia da folletto e ascolto i discorsi ispirati che accompagna con gesti, risate e suoni mi dico quanto è diverso da come mi aspettavo lo
chef de cave di Dom Pérignon, un figlio di vigneron che si è rifiutato di raccogliere il testimone della cantina di famiglia ed è scappato lontano a laurearsi in medicina, salvo poi tornare alle radici per diventare il creatore dell’eccellenza mondiale dello Champagne.
Breve riassunto delle puntate precedenti. Il monaco benedettino Pierre Pérignon, responsabile della dispensa dell’abbazia dal 1668 alla sua morte nel 1715, non può essere stato, come a volte viene descritto, «l’inventore dello Champagne», semplicemente perché lo Champagne ai suoi tempi non esisteva – qui si producevano vini fermi, e le eventuali bollicine erano casomai considerate un problema, anche perché avevano il brutto vizio di far esplodere le bottiglie.
I lunghi inverni della regione infatti bloccavano precocemente la fermentazione, lasciando nel vino zuccheri residui e lieviti dormienti che, se esposti dopo l’imbottigliamento al caldo dell’estate, la facevano ripartire: e si formavano le bollicine. Sarebbero stati gli importatori inglesi, più tardi, a sfruttare quel «difetto» – che ai loro clienti piaceva – inventando bottiglie più robuste dentro le quali i vignerons francesi potevano aggiungere zucchero per avviare di proposito la seconda fermentazione.
La rivoluzione che Dom Pérignon invece introdusse, e che è il vero segreto dello Champagne, sta nella conoscenza delle uve e del loro trattamento. Fu lui a inventare la cuvée, l’assemblaggio, la tecnica di ottenere un vino equilibrato mescolando vini-base con diverse caratteristiche provenienti da uve di diversi distretti (crus) e di diverse annate e di diversi vitigni – principalmente chardonnay, pinot nero e pinot meunier, anche se sono ammessi pinot grigio, pinot bianco, arbane e petit meslier. Sempre lui inventò la vinificazione in bianco delle uve rosse, pinot nero e meunier appunto, fatta con una soffice spremitura che non dà tempo ai pigmenti delle bucce di colorare il vino – solo per il rosé quelle bucce vengono lasciate a «sanguinare» nel mosto.
Oggi come allora, a trasformare l’uva in vino è un lievito naturalmente presente nell’aria e sulla buccia dell’uva, il Saccharomyces cerevisiae, un organismo unicellulare che «mangia» i carboidrati e gli zuccheri del mosto e lascia, come scarti, alcol e anidride carbonica; in questa prima fermentazione l’anidride carbonica si libera e il risultato è un vino fermo. O meglio, uno dei tanti vini-base che vengono miscelati in primavera per ottenere la cuvée desiderata. Questa viene imbottigliata con l’aggiunta di una liqueur de
tirage contenente altri zuccheri e altri lieviti per avviare la seconda fermentazione che – essendo la bottiglia chiusa ermeticamente con un tappo a corona – genera CO² stavolta intrappolata nel vino: le bollicine.
Il miracolo dei lieviti
Lo zucchero in un paio di settimane è trasformato, ed è a questo punto che dentro le bottiglie – accatastate orizzontalmente dentro le gallerie scavate nel gesso – avviene il vero miracolo. Il lievito inizia a «soffrire la fame», poi attraverso i suoi enzimi si «auto-mangia», scambiando lentamente con il vino molecole e sfumature. È il cosiddetto «riposo sui lieviti», che deve durare almeno 18 mesi, 3 anni obbligatori per i millesimati.
Finita la maturazione, le bottiglie vengono messe «a testa in giù» su speciali cavalletti – i pupitres – dove ogni giorno sono ruotate di pochi centimetri, a mano, per staccare i residui dalle pareti di vetro, e
«Questi vini sono più longevi di noi: mi piace l’idea che quello che faccio mi sopravviverà»
gradualmente inclinate fino a trovarsi, due mesi dopo, quasi verticali e con tutta la feccia – quel che resta dei lieviti morti – adagiata sul tappo. Per eliminarla – una volta si faceva a mano – il collo viene immerso in un bagno freddissimo che congela solo quei pochi centimetri, viene tolto il tappo a corona, il cilindretto di ghiaccio viene sparato via dalla pressione: è il dégorgement.A questo punto si inserisce il tappo di sughero, non prima di aver rabboccato la bottiglia con una liqueur d’expédition composta da vino e zucchero, per aggiustare il bouquet e il residuo zuccherino – in ordine di zuccherinità crescente: pas dosé, ovvero niente zucchero aggiunto, solo vino (si dice anche brut nature e brut zero), e a seguire extra brut, brut, extra sec, sec, demi-sec, doux. Dopo un periodo di riposo, lo Champagne è pronto.
Complicarsi la vita
Se vi è sembrato complicato, sappiate che c’è chi si complica ulteriormente le cose. La Champagne è una regione ai margini settentrionali della produzione vinicola «facile»: basta un’estate troppo calda o troppo piovosa, una gelata primaverile a compromettere la vendemmia. Il bello della cuvée è che si possono compensare gli eccessi di una stagione con quelli di un’altra. Creare un millesimato – ovvero un vino fatto tutto con uve del millesimo scritto sull’etichetta, «che racconti la storia di quella vendemmia, le difficoltà, le maledizioni» (e qui Geoffroy sorride estasiato) – è un’impresa per alcune annate impraticabile. E infatti tutte le maison della Champagne producono sia millesimati sia cuvées «multianno». Tutte meno una.
Negli anni Venti Moët & Chandon decide di dedicare al leggendario monaco una marca di Champagne di altissimo livello, la prima e l’unica a lanciare solo bottiglie millesimate, e tutte sottoposte a dégorgement dopo un riposo sui lieviti molto più lungo del normale: minimo 7 anni, spesso di più. La prima annata di Dom Pérignon, il 1921, viene messa in vendita solo nel 1936. Il primo rosé, il 1959, esce sul mercato nel 1971. In ogni bottiglia entrano solo uve chardonnay e pinot nero, e sempre entrambe: niente blanc de blancs (Champagne ottenuto solo da uve bianche), niente blanc de noirs (da uve rosse). E di tutti i 313 crus della Champagne – 17 sono grands crus, ovvero i migliori tra i migliori, subito sotto ci sono i 41 premiers crus, e poi gli altri 255 – Dom Pérignon usa soltanto vini base provenienti da 8 grands crus e, per questioni di radici, un premier cru: Hautvillers, il cru dell’abbazia, compreso il piccolo vigneto che Dom Pierre curava personalmente, e che la maison ha comprato.
Una nuova pienezza
Diventato chef de cave nel 1990, Richard Geoffroy ha modo di degustare, negli archivi della cantina, bottiglie di storiche annate mai «degorgiate», e fa una scoperta sorprendente: lo Champagne rimasto sui lieviti oltre i normali 7-8 anni previsti per il Dom Pérignon millesimato continua a migliorare, ma non in modo graduale, bensì compiendo due grossi balzi: il primo dopo circa 15 anni, il secondo dopo più o meno 25. Sono le tre vite che Geoffroy chiama plénitudes, finestre di tempo in cui lo Champagne entra improvvisamente in una nuova «pienezza». La prima, quella del millesimato, è la
plénitude dell’armonia, la seconda è quella dell’energia, «come passare dalla Tv normale a quella HD», la terza è quella della complessità più ricca e definitiva. Stappare un
deuxième o troisième plénitude – indicati dalle sigle P2 e P3 in etichetta – è assai diverso dallo stappare un millesimato della stessa annata, perché questo è stato sottoposto a
dégorgement molti anni fa, quelli invece fino all’altro ieri sono rimasti sui lieviti miracolosi. E lanciare sul mercato queste due nuove linee – operazione partita nel 2014 – comporta la decisione coraggiosa di accantonare parte della produzione e quindi vendere meno Champagne subito, rinunciando a una grossa fetta di introiti, nella speranza di scoprire, magari fra vent’anni, che ne è valsa la pena.
«È come con i figli», mi dice Geoffroy sotto il verde cupo di un cedro secolare. «Non sappiamo con certezza che cosa diventeranno, né vogliamo che facciano esattamente quello che ci aspettiamo da loro: speriamo che ci sorprendano. Anche del vino spero che mi sorprenda: se sorprende me, sorprenderà anche lei. Detto questo, penso di avere una buona idea del potenziale di un’annata: se non ci credo, preferisco non farla (la decade del 2000, con due soli anni saltati, il 2001 e il 2007, è stata un record, ndr). Quando dichiaro un millesimo, vuol dire che penso che possa funzionare come millesimato, ma anche come P2 o P3: se non ci arrivasse, sarebbe un fallimento».
Mi conferma la leggendaria memoria, che gli viene attribuita, di ogni annata e di ogni cru, perché, spiega, l’assemblaggio della cuvée, questa operazione di alchimia che neppure riesco a concepire, «inizia qui, nella testa, come rappresentazione mentale: non si può provare tutto, sarebbe perdersi. Un po’ come Schumacher che raccontava di provare il circuito seduto nella sua poltrona, “vedendo” a occhi chiusi ogni curva e ogni millimetro». È il momento più tecnico – si fa per dire – della conversazione: inutile chiedergli di pH e di percentuali, il suo è un approccio filosofico.
Mozart in bottiglia
«Come descrivere lo Champagne che ha gustato a pranzo? È un vino che rinuncia a essere “al massimo” in ogni suo aspetto: è la somma armonica che diventa quintessenza. La plénitude è questo: serenità, sfolgorio, leggerezza nella maturità. Non esiste nuovo e vecchio: il nuovo diventerà vecchio. Piuttosto esistono da una parte cose che restano limitate nello spazio e cose che invece parlano al mondo; cose che non durano e cose che invece durano. Mozart non è di un luogo, è del mondo, e non è vecchio, è sempre contemporaneo: umilmente, con un po’ di talento e tanto lavoro, la mia aspirazione è di creare a quel livello, e di coinvolgere chi partecipa alla creazione e chi, come lei, ne assaggia il frutto. Cogliere l’attimo fuggente in cui il vino si evolve, arrivare puntuali all’appuntamento, è qualcosa di molto intimo, anche da condividere. Durante un incontro con un gruppo di appassionati in Giappone, una signora si è alzata e ha detto che la degustazione le faceva rivedere davanti a sé tutta la sua vita».
Inutile aspettare un P4: l’archivio ormai quasi secolare della maison fa dire a Geoffroy che il terzo «appuntamento»
è l’ultimo. «Dopo, il vino non ha nuovi picchi. Però, in modo molto lento e regolare, continua a crescere: il 1973 che lei ha assaggiato, a 44 anni dalla vendemmia, non è neanche a metà della sua vita. Questi millesimi vivono ampiamente oltre il secolo, sono più longevi di noi, ed è questo soprattutto che mi piace, l’idea che quello che faccio mi sopravviverà e mi prolungherà: è una cosa che ti rende umile, ma anche orgoglioso di poter lasciare una traccia. Certo è la traccia di Dom Pérignon, io sono solo un anello della catena, altri mi hanno trasmesso, io trasmetterò ad altri. Quando sono arrivato qui ho presentato vini che altri avevano creato, oggi sto creando vini che altri presenteranno: è bello, è la creazione che non si esaurisce nel singolo individuo, è la consapevolezza di appartenere a qualcosa di più importante, alla storia».
Stappare una di queste bottiglie, gli dico, è come aprire una capsula del tempo. «Di più, perché lì dentro c’è materia organica, c’è il vegetale-vino trasformato dall’animale-lievito di cui conserva il fantasma, c’è il mistero della vita. L’uomo ha questa ridicola debolezza di pensarsi superiore al resto della natura: degustare questi vini più antichi è un po’ come guardarsi allo specchio, ricollegarsi all’universo dei viventi di cui siamo solo una parte».
Campane al tramonto
Lo spettacolo continua in una dépendance dell’abbazia, dove, seduti a un austero tavolo monacale davanti a sette calici, viviamo l’esperienza di una degustazione con il «filosofo». Sono previsti due millesimati – le ultime uscite, il 2009 e il 2005 rosé, ma a un certo punto il 2003 entra nel discorso e Geoffroy fa stappare anche quello – e quattro P2: 2000, 1998, 1996 e 1995. All’ultimo momento decide di farceli versare tutti insieme, perché vuole che sperimentiamo itinerari non ortodossi, che andiamo liberamente avanti e indietro nel tempo, «trascinando in ogni vino la memoria del precedente».
Impareggiabili le sue descrizioni. «Dom Pérignon è un uccello che spiega le ali. Non vive di potenza ma di un’armonia più intensa della potenza, perché niente è più intenso dell’amore. Anzi, più che intensità – una parola che dice “guardami, guardami” – preferisco parlare di profondità». «L’assemblaggio è tensione, paradosso, dualità, nero e bianco, yin e yang». «Il 2003 è dramma, è suono, il 2009 è insolenza, è luce».
E, nella luce del tramonto, il suono delle campane dell’abbazia al rintocco delle sette di sera si scioglie come lievito dentro il ricordo di questa giornata capace di separare un prima da un dopo.