La casa di caffè. Carolina Vergnano
Il primo sorso (a due anni e mezzo), l’arrosto «di Lina» e la moka da sei a colazione. Carolina Vergnano apre le porte di un posto molto speciale e si racconta. Tazzina dopo tazzina
Acredere nel destino, quello della famiglia Vergnano è un circolo perfetto. Che inizia nel 1882 a Chieri, ai piedi delle colline sopra Torino, dove Domenico avvia con una drogheria una piccola attività divenuta poi un brand oggi presente in 90 Paesi con 140 dipendenti. Domenico e la famiglia vivevano in una bella villa, poi trasformata in scuola e quindi in asilo. L’edificio, un elegante esempio di Art Nouveau, dopo un meticoloso restauro è tornato a essere una casa e, qui la sorte compie il suo disegno, anche una scuola. Al piano terra infatti è ospitata un’accademia del caffè certificata Premier Training Campus dalla SCA (Specialty Coffee Association), l’organizzazione che certifica a livello internazionale gli standard qualitativi in termini di formazione nel mondo del caffè. Insomma, una sorta di accogliente hub dove si tengono lezioni a chi, per gli aromatici chicchi, ha una passione, professionale o amatoriale. Al piano sopra la sorpresa: una cucina elegante ma domestica e una sala da pranzo dove perdersi e chiacchierare. Ad accoglierci, Carolina Vergnano, ultima generazione della più antica torrefazione italiana (137 anni). Classe 1981, Carolina, tre figli, segue le relazioni commerciali con l’estero, è entusiasta e sempre in movimento: una perfetta testimonial del marchio di famiglia. Ci accoglie tra i fornelli, estrae con cura da una vetrina un vecchio servizio da caffè. Nell’aria, profumo di arrosto: «La ricetta, segreta, è quella di Lina, in casa con noi da una vita, ogni volta (ride, ndr), me ne regala un pezzetto». A chi destinate questa tavola? «Alle riunioni con clienti e collaboratori. In un ambiente intimo le cose prendono una sfumatura diversa, più umana. Nascono rapporti che vanno oltre il lavoro perché spesso incontriamo persone che, come noi, hanno una storia familiare alle spalle». In questa cucina allestite semplici pranzi o qualcosa di più? «A partire da quest’anno ci piacerebbe coinvolgere anche ospiti esterni, che insegnino, in maniera amatoriale, la loro arte del ricevere a casa». Questa è anche un’accademia: che cosa c’è da sapere sul caffè? «Un mondo. Ogni settimana si tengono un paio di corsi. Molti sono destinati ai baristi, si va dall’organizzazione del bancone al modo di trattare con i clienti fino alla preparazione di piccoli assaggi, dalle più complesse tecniche di estrazione ai cocktail, fino al tramezzino perfetto». Perché creare questa realtà in un posto defilato come Chieri? «Al di là delle nostre origini, perché è un contesto molto veritiero: l’Italia è fatta di piccoli borghi, autentici, come questo». Qui è nata anche la prima caffetteria Vergnano. Ora sono 150: di che cosa si tratta? «Del progetto Caffè Vergnano 1882, una rete di coffee shop presenti in 21 Paesi ideata 15 anni fa per promuovere la cultura del caffè nel mondo. Cerchiamo di replicare il più possibile nel dettaglio il calore e la magia che si respira nei nostri storici bar. Luoghi d’incontro, di condivisione di idee, oltre che di degustazione. Lo scopo è quello di ➝
offrire un’altissima qualità a un prezzo accessibile. E il concetto si è esteso anche alla ristorazione: in collaborazione con Eataly, sempre qui a Chieri, abbiamo creato anche una sorta di food hall, un angolo di paese dove convivono, a stretto giro, una caffetteria, un’osteria e una piccola gastronomia. Un modello replicato anche a Savona». Vuole sfatare il mito degli italiani che non fanno squadra? «Sì. Essere coesi è fondamentale. Io lavoro ogni giorno in team. Ci sono i due “big boss”, mio padre Franco, più esplosivo, e mio zio Carlo, più riflessivo. Poi mio fratello Enrico, il “frontman” commerciale, e mio cugino Pietro, specializzato nella ricerca delle materie prime. Siamo un gruppo che “spacca”, ognuno diverso e ognuno con la sua identità, ma tutti protesi nella stessa direzione». Nel suo curriculum si legge «beve caffè sin da quando aveva due anni e mezzo». Ha iniziato presto. «Be’, in una casa dove non si parlava d’altro che di caffè è stato naturale. Assaggiavo il fondo zuccherato delle tazzine, col cucchiaino. Poi è arrivato il caffellatte con il rito della colazione, che poi è la mia ossessione».
In che senso?
«Ogni mattina mi alzo molto prima degli altri, verso le 5.50. Bevo una moka da sei da sola, quando è ancora buio, e intanto organizzo la giornata di tutta la famiglia nel silenzio più totale. È allora, con la mente fresca, che mi vengono le idee migliori. A questo punto sveglio i bambini e faccio una seconda colazione con loro e mio marito, con cui mi contendo la seconda moka».
Starbucks del caffè italiano ha fatto un
affair internazionale. I puristi hanno gridato allo scandalo. Lei?
«Tutto sommato ne sono felice perché mi ha stimolato a fare ancora meglio: l’obiettivo è di replicare Casa Vergnano nel mondo, qualcosa di intimo e ancora più di nicchia. Con una cura minuziosa dei particolari».
Di caffè si parla in modo sempre più sofisticato: come lo berremo quest’anno?
«Non credo nelle mode, per esempio non amo le tostature acide, al momento molto di tendenza. Preferisco un caffè semplicemente di qualità. Sono una tradizionalista, penso che alla fine a resistere siano le cose più amabili».
Altre passioni oltre il caffè?
«Il golf, ci accomuna tutti. Facciamo anche la family cup, siamo in 16, più la mitica Lina, che ci segue anche se non gioca. Alla fine della partita ci sediamo a bere un caffè e discutiamo di quello che è giusto e sbagliato. Nella vita ci vuole sempre qualcuno che ti dia delle regole».