Il mio pranzo memorabile
Tra amici bizzarri, viaggi planetari e tabù alimentari, Antonio Ricci, uno dei più amati autori televisivi, racconta le sue indimenticabili esperienze a tavola
Una «milanese» di carta. Antonio Ricci
Non è detto che memorabile voglia sempre dire bello da ricordare. La cosa che mi viene in mente d’acchito è la minestra di riso delle suore, acida come i loro baffetti e così odiata che hanno dovuto togliermi dall’asilo e fino ai ventidue anni non ho più assaggiato un chicco. Ho anche dovuto fare i conti con alcune mie imperscrutabili idiosincrasie: non riesco a mangiare cibo che sia riconducibile a una forma animale. Posso addentare un culatello, ma solo perché il culatello è una chiappa. Ho l’idea che al maiale ne taglino una fetta, ma poi ricresca. Il pesce non posso neanche assaggiarlo. È lì che mi guarda con quegli occhi. Mangio con gusto però bottarga e caviale, arrosti e filetti.
“Sono quindi un carnivoro e un ittiofago incerto, un commensale problematico. Nei ristoranti ho sempre intenerito qualunque maître spiegando che non potevo consumare certi cibi per ‘motivi religiosi’. Fino al giorno in cui nel ’77, a Milano, con Beppe Grillo siamo andati a mangiare da Aimo e Nadia, grande ristorante toscano curiosamente defilato dal centro. E mi sono accorto che lì c’era una linea di cibo che mi piaceva: primizie di verdure, pappa al pomodoro, la loro famosa zuppa etrusca, spaghetti col cipollotto, controfiletto di fassona con cipolla di Tropea. Un segno del destino: pochi anni dopo, a 70 metri, c’erano gli studi del Drive In. Diventò la nostra mensa. Naturalmente il mio lavoro è stato occasione di alcuni pranzi memorabili.
“Alla fine degli anni Settanta, a Milano, condividevo l’appartamento con Beppe Grillo; lui faceva da mangiare, io sparecchiavo. All’una e mezza in punto, passava per ‘portarci il giornale’, in realtà per autoinvitarsi a pranzo, il cabarettista Boris Makaresko con La Notte. Un giorno Beppe glielo ha impanato e fritto e io per stare al gioco ho dovuto assaggiarlo per primo con convinzione. Tutta la serie di ‘Te lo do io il ...’ mi ha regalato indimenticabili incongruità gastronomiche. A Manaus, nell’83, per ‘Te lo do io il Brasile’, in una sorta di capanna c’erano delle esilaranti Lazagne bolognesa (sic) che ho mangiato per prudenza, mentre mia moglie Silvia, che ha un pa- lato avventuroso, ha osato il ‘delfino del Rio delle Amazzoni’ in umido di un’erba che anestetizzava la bocca (ottimo, secondo lei).
“In due memorabili tappe successive, distanti trentaquattro anni, c’è il Giappone, sperimentato con Beppe Grillo e Stefano Benni in giro esplorativo nell’85, dove i nostri iniziali entusiasmi per le mini auto formato Topolinia si sono arenati a Kyoto davanti a quello che doveva essere il clou del viaggio: un pranzo kaiseki servito da geishe, una per ciascuno di noi. Quando sono comparse una fila di rispettabili anziane, abbiamo capito che non ce l’avremmo fatta mai a rendere comica la ritualità giapponese e abbiamo rinunciato.
“La seconda tappa, di pochi mesi fa, combina la tavola e la mia passione per il giardino, passione che mi ha portato a commettere la follia (è importante fare qualcosa di folle ogni tanto) di ristrutturare ad Alassio, a un passo da Albenga, mia città natale, Villa della Pergola di lord Hanbury, e il suo parco abbandonato da decenni, ricco di piante esotiche rare e di alberi centenari tra cui un magnifico glicine. Per studiare i tunnel di glicini giapponesi, sono partito con moglie e figlie in missione conoscitiva. Abbiamo cenato al MoonFlower Sagaya Ginza, dove i cibi serviti si confondono con le immagini delle fioriture proiettate sulla tavola e sulle pareti. Comunque invito tutti ad ammirare i glicini – e non solo – del mio giardino, che fa parte del circuito dei Grandi Giardini Italiani, aperti al pubblico. Tra l’altro, all’interno, ho voluto il ristorante, dove il cuoco mi vizia con alcuni piatti studiati sui miei gusti. E quindi per me ultramemorabili.