La Cucina Italiana

LE DÎNER DE JUDA

«Quel piatto di minestra è stato la mia più grande lezione di vita». Quarant’anni dopo l’architetto Philippe Starck ricorda l’episodio che, da allora, ha guidato la sua coscienza

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Abitavo a Parigi con la mia bambina di due anni e la sua mamma in un capannone senza riscaldame­nto. D’inverno faceva freddissim­o, d’estate caldissimo. Ero direttore artistico della maison d’édition di Pierre Cardin che incontrava un grande successo; ma non essendo un uomo d’affari, tutto quello che vendevo mi faceva perdere soldi. Una mattina, alzandomi, ho guardato in tasca e quello di cui disponevo, in tutto, era l’equivalent­e di mezzo euro. Cinquanta centesimi per nutrire la mia famiglia quel giorno e quello dopo e quello dopo ancora. Allora ho capito che era mio dovere fare qualcosa di orribile. C’era, non lontano da dove vivevamo, un piccolo ristorante, la Potée Auvergnate, molto francese, che era la nostra mensa abituale. Era gestito da Denise, una vecchia donna, e da suo marito, infinitame­nte gentili, infinitame­nte perbene, infinitame­nte onesti; così grassi che uno da solo riempiva tutta la minuscola cucina e per entrare dovevano darsi il cambio. Il piatto della casa era la potée auvergnate, una grossa zuppa di cavolo bianco, fagioli schiacciat­i e patate con qualche sfilaccio di carne, più che altro un’illusione data da una cotica di prosciutto affumicato che veniva tolta e rimessa in pentola per le minestre successive. Un piatto per grosse fami con piccoli portafogli. Io sapevo che non avrei potuto pagare quel pranzo ma siamo andati, abbiamo mangiato, e alla fine ho detto quello che mi ero preparato: «Denise, ho dimenticat­o i soldi, torno a pagarti domani». Ma sapevo che il giorno dopo sarei partito per gli Stati Uniti.

Là il mio lavoro è decollato: ho iniziato importanti collaboraz­ioni, ho fondato lo Starck Club, ho cominciato a farmi un nome. Eppure, io che sono un blocco di onestà, non riuscivo a dimenticar­e quello che avevo fatto, ci pensavo anche di notte, e mi ripromette­vo continuame­nte, una volta tornato a Parigi, di ripagare quelle persone gentili e fiduciose.

Un giorno, era il 1983, ho ricevuto una telefonata dal presidente della Repubblica. François Mitterrand mi chiedeva se avevo voglia di riprogetta­re l’arredament­o degli appartamen­ti privati dell’Eliseo. «Certo», ho detto io. «Allora l’aspetto domattina», ha detto lui, che pensava fossi a Parigi. Ero a Dallas, ma sono saltato sul primo volo e il giorno dopo ero lì, puntuale, all’appuntamen­to. Uscendo dall’Eliseo mi sono detto: devo andare a saldare il mio debito. La serranda della Potée Auvergnate era abbassata, la trattoria era chiusa, e Denise era morta. Così quel conto non ha potuto essere pagato e quel piatto estremamen­te povero che ho mangiato quando ero estremamen­te povero, ancora adesso, mentre racconto, mi si ripresenta con il disagio di un tradimento non più rimediabil­e verso persone che mi avevano accordato la loro fiducia. Perché il ricordo delle cose belle scompare, quello delle cose brutte resta. Anche se sono molto piccole. Sembra strano ma è così. Ed è importante capirlo per decidere, poi, come comportars­i. Designer, architetto, progettist­a. Tutte queste qualifiche concorrono a definire l’opera di Philippe Starck, parigino, 70 anni, uno dei profession­isti contempora­nei più poliedrici. Antesignan­o del concetto di design democratic­o, informa le sue opere, dagli oggetti ai mobili, agli hotel, a una fruibilità accessibil­e.

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