Grandi famiglie
I 49 «mi piace» di Giacomo Leopardi
Perché Giacomo, il fotografo, e io eravamo emozionati arrivando a Recanati? Be’, per almeno tre ragioni. Uno: stavamo per essere ricevuti nella casa di uno dei più grandi poeti italiani da Olimpia Leopardi di San Leopardo, discendente da Pierfrancesco, fratello minore di Giacomo, la quale tuttora vive nel palazzo di famiglia; due, eravamo nel pieno delle celebrazioni per i duecento anni della composizione della poesia L’infinito; tre, avevamo in mano un piccolo scoop: la poesia Alla luna, composta anch’essa nel 1819, intercettava le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario del primo
allunaggio, nel luglio 1969. In più, nel 1813, quindicenne, Giacomo aveva scritto la Storia dell’astronomia, un trattato storico-scientifico lodato negli ambienti colti dell’epoca. Lo spunto gliel’aveva dato, due anni prima, il passaggio di una cometa nel cielo di Recanati. E viene da chiedersi come diversamente avrebbe scritto quel saggio, se alle 20.17’.40’’, ora di Greenwich, del 20 luglio 1969, avesse visto su uno schermo televisivo del «natio borgo selvaggio» (ormai provvisto di televisore) il primo uomo mettere piede sul suo astro prediletto.
Approdando nella piazzetta Il sabato del Villaggio, con un vertiginoso flashback ci sentivamo come i trentamila ragazzi che ogni anno vengono in gita a Recanati per visitare i memorabilia della famiglia nell’antico frantoio ristrutturato, per seguire il percorso multimediale, guardare
la finestra dove cuciva la figlia del cocchiere di famiglia, che aveva ispirato la poesia A Silvia, visitare la biblioteca e la stanza in cui Giacomo studiava e, al termine dell’itinerario, fare la cosa più desiderata e inaspettata: un selfie col busto marmoreo del poeta in una stanzetta del palazzo creata ad hoc, magari con addosso una delle T-shirt stampate con i suoi versi. Un colpo di genio di Olimpia, la quale ha voluto che la memoria di un avo così speciale non avesse niente di accademico e polveroso. Anche perché la famiglia ha continuato ad abitare il palazzo rendendo domestiche misure abitative inimmaginabili per i comuni mortali. «Sono cinquemila metri quadrati e rotti», spiega, «e non credo di conoscerli tutti. C’è qualche porticina che non so dove porti; c’è la sala in cui Giacomo improvvisava le recite che ha metà pavimento di assi di legno vuote sotto e mai sollevate».
Donne fuori del comune
C’era quindi di che essere emozionati mentre la padrona di casa ci precedeva lungo lo scalone che porta all’ala dove vive con i tre figli Gregorio, Diana ed Ettore, 17, 15, 11 anni, sopra le stanze dove Giacomo studiava e sopra la
biblioteca foderata di quei ventimila volumi che il padre Monaldo aveva collezionato quasi prosciugando il patrimonio familiare. Patrimonio rimesso a posto dalla giudiziosa amministrazione della moglie Adelaide, una delle straordinarie donne di famiglia: Paolina, sorella diletta di Giacomo e grande studiosa; Anna, nonna di Olimpia, presidente del Centro Studi Leopardiani; Olimpia che si occupa oggi a tutto tondo della gestione culturale.
Nostra missione e privilegio: fotografare qualche piatto tratto dal prezioso ricettario manoscritto tuttora seguito da Benone, il cuoco-maggiordomo di casa (che ha interpretato lo stesso ruolo nella scena del pranzo del film
Il giovane favoloso di Mario Martone), il quale ha la fortuna di rifornirsi di frutta e verdura, di uova, galline e conigli dall’azienda agricola di famiglia e di approvvigionarsi nella strepitosa stanza della dispensa di salumi confezionati dal pistarolo (l’uomo che macella e prepara il maiale), di bottiglie di olio, confetture, sottoli e sottaceti fatti in casa.
Per noi ha preparato due piatti coreografici: uno sformato di lingua e gamberetti, e un budino di riso, frutta e confettura di ciliegie. Idealmente, l’apertura e la chiusura di un pranzo importante. Sulla tavola, piatti di porcellana candida, bicchieri con decorazione ottocentesca, fiori del giardino, frutta dell’orto. Al centro, su un tagliere, a smentire il tono ufficiale, il ciauscolo, il salume marchigiano per eccellenza, morbido come un pâté.
Aristocratico bon ton
Difatti la padrona di casa sottolinea: «A noi piace la cucina semplice. A mezzogiorno mangiamo con mio padre Vanni, magnificamente accuditi da Benone; ma per il resto viviamo nell’altra ala del palazzo e siamo autonomi. Con ruoli precisi: Ettore prepara la tavola e cucina la nostra ricca colazione con pancake e uova all’occhio di bue; io, per cena, faccio quiche, polpettoni, coda alla vaccinara, pollo in potacchio, primi piatti. Diana, che ha seguito un corso di pasticceria, è addetta ai muffin e al Victoria Cake (una torta molto soffice farcita di crema al mascarpone e confettura di lamponi, ndr)».
«O graziosa luna, io mi rammento//Che, or volge l’anno, sovra questo colle// Io venia pien d’angoscia a rimirarti://E tu pendevi allor su quella selva// Siccome or fai, che tutta la rischiari» Dalla poesia Alla luna
Stile libero, quindi. Ma solo apparentemente. Invitati a pranzo dal conte Vanni, da decenni non vedevamo ragazzi che salutano accennando un inchino; che stanno a tavola mirabilmente; che, per alzarsi, chiedono permesso.
In questo eredi del prozio Giacomo, il quale si definiva «monofagista», nel senso che combatteva l’uso invalso di parlare masticando; abitudine contraria anche alla buona digestione e al godimento dei piatti, sui quali aveva idee precise. Tanto da comporre un esilarante poemetto contro la minestra: «… Ora tu sei, Minestra, dei versi miei l’oggetto,/ e dirti abominevole mi apporta gran diletto./ Ah, se potessi escluderti da tutti i regni interi;/ sì certo, lo farei contento e volentieri». Altrettanto preciso ed esigente era su quello che gli piaceva. «Perché», spiega la contessa Olimpia, «Giacomo aveva un temperamento autoritario e in casa gli era riconosciuto dai fratelli un ruolo di guida». Chi altro, poeta o no, buongustaio o no, ha composto un elenco puntuale dei piatti di suo gusto? Sono 49, a uso del cuoco di casa: al primo posto i «tortellini di magro», poi molte verdure, molti fritti, molti «bodini», pochissime portate di carne.
Palato critico anche sul vino. Il 20 febbraio 1826, scrivendo al padre da Bologna, commenta: «E i nostri vini… non si venderebbero qui nel Bolognese a preferenza di questi vini fatturati e pessimi, tutti ingrati al gusto?». Duecento anni dopo Vanni Leopardi ha dato ragione all’avo dedicando una parte delle tenute agricole di famiglia alla vigna. Oggi nell’azienda agraria Conti Leopardi di San Leopardo i vitigni locali sono intrecciati a quelli internazionali: il Valdicia unisce il verdicchio allo chardonnay in un bianco morbido; il rosso Zibaldone gioca con le uve montepulciano e cabernet per un sapore austero. Noi li abbiamo trovati gradevolissimi, e sarebbero piaciuti anche a Giacomo.