Conoscere il cibo
Fresco, in scatola, superfrozen. Quello rosso non arriva sulle nostre tavole, mentre dappertutto troviamo il tropicale. Ma non sempre è sicuro. E il mercurio non c’entra
Tonno, ma quale?
Aja, aja, Maulay! Suvvia, o mio Creatore, aiutaci». Dai barconi ancorati al largo si leva un canto. All’improvviso, il mare è ricoperto di schiuma. Centinaia di braccia tirano le reti piene di tonni. Arpioni, urla, sangue: inizia la mattanza.
Accadeva tanti anni fa a Favignana, nelle isole Egadi, dove nel maggio scorso è stata riaperta per pochi giorni una delle tonnare più antiche del Mediterraneo. Succede ancora oggi in tutto il mondo. Anche se con metodi diversi, sono più di ottanta gli Stati che praticano la pesca al tonno, per un giro di affari di oltre 42 miliardi di dollari. Migliaia di pescherecci operano in tutti gli oceani, specie in quello Indiano e nel Pacifico, dove l’attività è in continua crescita ed è rivolta sia all’inscatolamento e sia al consumo fresco. Quest’ultimo è sempre più diffuso nel nostro Paese, soprattutto nella variante sushi e sashimi: nell’ultimo anno ne abbiamo consumato oltre 47mila chili. A guidare la produzione, però, è il tonno in scatola: lo consuma un italiano su due. «Siamo il secondo mercato
europeo dopo la Spagna», spiega Vito Santarsiero, vicepresidente di Ancit, l’associazione nazionale dei conservieri ittici. «Abbiamo una produzione nazionale di 75.800 tonnellate e un consumo di 155 mila, per un valore di 1,3 miliardi di euro».
Un successo dovuto alle straordinarie proprietà nutritive del tonno. «La sua carne è un’eccellente fonte di proteine», spiega Silvia Migliaccio della Società italiana di Scienza dell’alimentazione, «è povera di grassi, contiene minerali come zinco, ferro, fosforo, sodio, potassio, iodio e selenio, e vitamine del gruppo B e PP. Fornisce un apporto ottimale di grassi Omega-3, importanti per la prevenzione di malattie cardiache e diabete». Ma quale tonno arriva sulle nostre tavole?
«Un tempo mangiavamo il “rosso”, la specie più pregiata, che vive nel Mediterraneo», dice Valentina Tepedino, direttrice di Eurofishmarket. «Oggi questo pesce, che deve il nome al colore intenso delle sue carni e può superare i tre metri di lunghezza, è raro e costoso. Colpa della pesca indiscriminata, che lo ha portato sull’orlo dell’estinzione, ma che per fortuna è stata limitata». «Gli organismi internazionali assegnano agli Stati le quote che possono essere catturate. In Italia si parla di 4 mila e duecento tonnellate», aggiunge Santarsiero, «ma ogni anno si aumenta del 10 per cento, segno che la specie non è più a rischio come prima». «Tuttavia, non lo mangiamo più. Convinti che sia ancora in estinzione, molti supermercati non lo vendono e gli chef stellati non lo inseriscono nei menu», continua Tepedino. «Quelli catturati vivi vengono comprati dagli allevamenti maltesi e spagnoli, che li ingrassano e poi li vendono magari ai nostri ristoranti». La maggior parte finisce in Giappone, dove al mercato ittico di Tsukiji, il più grande al mondo, i tonni migliori vengono venduti a cifre da record: nel gennaio del 2013 un esemplare di 222 chili è stato pagato 1,3 milioni di euro.
«In Italia si mangia il “pinna gialla”, che ha una carne piuttosto rossa ma è meno pregiato», dice Santarsiero. «Lo importiamo da tutti gli oceani ed è la specie più usata per le nostre scatolette, mentre all’estero va di più il tonnetto striato. Arriva sotto forma di filetti precotti poiché viene pulito, sezionato e lavorato nei luoghi di pesca. Molte
«L’Italia è il secondo mercato europeo del tonno in scatola. Ne produciamo 75.800 tonnellate e ne consumiamo 155.000»
aziende, però, comprano il pesce intero congelato e lo trasformano nei propri stabilimenti». «Quello che troviamo sul banco del fresco è spesso decongelato», precisa Tepedino, «oltre al pinna gialla, importiamo l’obeso, che è parecchio grasso e, se non è freschissimo, tende a deteriorarsi in fretta. Nei nostri mari si trova la qualità “ala lunga”, che non è molto amata perché tende al rosato chiaro. Poi ci sono tonnetti e tombarelli, che non sono molto considerati».
«La grande richiesta di “pinna gialla” sta mettendo a rischio questa specie», dice Giorgia Monti di Greenpeace. «La pesca industrializzata è distruttiva, perché vengono usati sistemi come i fad (fishing aggregating device), oggetti galleggianti sotto i quali i tonni si aggregano in cerca di cibo e protezione, e reti a circuizione, che racchiudono la porzione di mare dove i pesci si sono riuniti. Dentro rimangono catturati squali, mante, tartarughe, oltre agli esemplari più giovani di tonno, che non potranno riprodursi. Da anni chiediamo che vengano messi limiti alla pesca e aumentati i controlli per non mettere a rischio l’intero ecosistema marino».
«Molti passi avanti sono stati fatti», spiega Francesca Oppia di Marine Stewardship Council (Msc), l’organizzazione che certifica con un bollino blu la pesca sostenibile, «ormai i consumatori controllano che sulle scatolette ci sia il nostro marchio e sempre più aziende lo richiedono. Per ottenerlo bisogna dimostrare che non si pescano esemplari giovani e quantità troppo impattanti o specie protette. Stiamo lavorando per ottenere un bollino anche per il pesce fresco».
«Si tratta, però, di marchi privati», ribatte Giorgia Monti, «più che guardare ai bollini, meglio comprare pesce locale e di stagione e prestare attenzione alle etichette, dove deve essere indicato il tipo di pesca. Quanto al tonno rosso, si dovrebbe bloccarne la cattura per un po’. La specie non è ancora in salute e c’è troppa pesca illegale. Privati della possibilità di venderlo, i trafficanti sarebbero costretti a fermarsi».
«C’è anche un problema di gestione del pesce», dice Tepedino, «che viene catturato e congelato subito sui pescherecci. I controlli igienico-sanitari sono serrati. Ma alcuni filoni, che arrivano già lavorati e congelati, poi vengono venduti come freschi. Si usano troppi additivi non dichiarati e non leciti per far sì che la carne resti rossa, anche quando è impossibile. Dopo un po’, la parte esposta all’aria dovrebbe diventare marrone. Com’è possibile che nelle vetrine ci siano quei bei pezzi di sushi color rosso vivo?».
Il rischio è che chi lo mangia stia male. «Il tonno è ricco di istidina, un amminoacido che, quando non viene mantenuta in maniera corretta la catena del freddo, si trasforma in istamina e causa la sindrome sgombroide. I sintomi vanno dalla nausea al vomito, fino alla morte. Per non parlare dell’anisakis, un parassita le cui larve sono molto pericolose per l’uomo. L’unico modo per distruggerle è congelare la carne per almeno 36 ore. Da qui la moda del pinna gialla superfrozen: lo compri, lo scongeli e puoi mangiarlo crudo».
«Poi c’è il problema del metilmercurio», dice Patrizia Cattaneo, direttore della Scuola di specializzazione in Ispezione di alimenti di origine animale. «Il tonno, che si nutre di altri pesci e vive più a lungo, può contenerne grosse quantità. È pericoloso per le donne in gravidanza, provoca problemi neurologici ai feti. La sua presenza non dipende dalle zone dove il tonno viene pescato: il mercurio è presente ovunque in natura, ma si accumula di più nei pesci grossi. Tuttavia, per ammalarsi bisognerebbe consumarne dosi spropositate. Mangiando quello in scatola, oppure il fresco una o due volte a settimana, il problema non si pone».
Meglio il tonno in scatola o fresco? «Dipende», dice Patrizia Cattaneo, «tra il crudo e quello in scatola, meglio il secondo. Anche il pinna gialla fresco venduto sottovuoto può andare bene, perché dura più a lungo di quello non confezionato. Alcuni tonni da allevamento non contengono anisakis e metilmercurio, ma il sapore non è lo stesso. Nel complesso, vale la regola generale: mai abusare».