Cosa si mangia in Calabria
Respirare tra la Sila e il mare Per scoprire novità e tendenze e imparare tecniche e segreti
In una terra dai tanti volti, ricca di sentimento e di risorse, che ancora conserva il sapore dell’inesplorato. Accompagnati da una guida d’eccezione, siamo andati alla scoperta delle gustose meraviglie del Crotonese
C’è profumo di Calabria», diceva mia mamma ogni tanto, così di punto in bianco, magari nel pieno dell’inverno. La mia famiglia (torinese garantita), misteriosamente, per alcuni anni si è recata in vacanza sulla costa calabrese tirrenica, in una cittadina (cantata con affetto dal cantautore cosentino Brunori Sas) che, a dire il nome, fa quasi sorridere: Guardia Piemontese… Non tornavo in questa regione da moltissimi anni, ed è stato come essere risucchiata dalla macchina del tempo. È bastato imboccare la Strada dei due mari, quella che da Lamezia Terme in 32 km porta verso il Mar Ionio (siamo nel punto più stretto in Europa dove due mari si sfiorano), perché il profumo arrivasse prepotente a risvegliare ricordi indelebili: un misto di finocchietto selvatico, anice nero, mirto, ginepro, pino laricio, liquirizia, salsedine e vento delle montagne. Perché la Calabria è così: mare, anzi mari, e montagne, Pollino, Sila e Aspromonte che danno forma e forza alla punta dello stivale. Così si parte, con il profumo nel cuore, la luce che accarezza le colline e il vento che muove le pale eoliche, nuovo-vecchio landmark, disseminate un po’ ovunque. La prima tappa che ci suggerisce la cuoca Caterina Ceraudo, nostra guida e compagna di viaggio, la facciamo a San Floro, a una decina di chilometri da Catanzaro,
per scoprire una realtà che sprigiona energia positiva e produce farine biologiche macinate a pietra: Mulinum. «Se le persone che vivono in un territorio non fanno niente per difenderlo, il territorio è destinato a svanire». Esordisce così Stefano Caccavari, la mente del progetto. «Sono appassionato di informatica, ma qui non è la Silicon Valley. Mi sono guardato intorno e mi sono domandato: qual è la vocazione di questo territorio?». Ecco perché è nato Mulinum, finanziato da una raccolta fondi lanciata su Facebook e costruito da zero in meno di quattro mesi, in bioedilizia, per trasformare una buona idea in realtà (funziona così bene che verrà presto replicata in Toscana e in Puglia). Coltivazione di grani antichi senza chimica, molitura della farina con macine in pietra originali (salvate dall’ultimo dei nove mulini di San Floro), produzione e vendita di pane e pizza. Assaggiamo un pezzo di Brunetto di semola integrale, il loro pane più venduto, e ci rimettiamo in cammino, verso l’Azienda Agricola Ceraudo dove passeremo la notte.
Si va sulla montagna
La sveglia ce la danno i raggi del sole, il canto degli uccellini, uno yogurt di pecora che sembra velluto e il pane al limone candito, impastato da Caterina con le farine di Mulinum. Piene di energie ci prepariamo per andare a Cupone (Cosenza), dove si trova uno degli ingressi del Parco
Nazionale della Sila. Una guida ci attende per illustrarci le caratteristiche del parco e guidarci in un breve trekking, durante il quale, ahimè, non incontriamo nessun lupo silano, simbolo del parco. Per rifocillarci ci rechiamo a Camigliatello Silano (1272 metri, qui d’inverno si viene a sciare), per una sosta ben più che corroborante: caciocavallo alla piastra, porcini appena colti grigliati (la Calabria è tra le prime regioni italiane esportatrici di questi funghi), soppressata, salsiccia calabrese e
patate ʼmpacchiuse (tagliate a fette e cotte in padella finché non fanno la crosticina e non rimangono ’mpacchiuse, cioè un po’ attaccate tra loro), capocollo, pecorini, funghi rositi sott’olio (anch’essi tipici del sottobosco silano) e ovviamente peperoncino, in salsa, sbriciolato, in polvere (qui lo chiamano pepe rosso) o trasformato in composta. Per chiudere in bellezza arriva una porzione di pitta ʼmpigliata, una striscia di pasta molto friabile e ricca, farcita con uvetta, frutta secca e miele, arrotolata e fermata, impigliata appunto, con uno stecchino e poi cotta in forno. Ce la servono accompagnata da un bicchierino di Jefferson Amaro Importante, di Vecchio Magazzino Doganale di Cosenza, che nel 2018 ha vinto il World Drinks Award, come migliore amaro alle erbe del mondo. Il ritorno verso la costa ci permette di ammirare un paesaggio che muta rapidamente: dalle conifere (la punta più alta dell’altopiano silano, Botte Donato, è a 1928 metri s.l.m.) alle betulle, agli aceri e alle altre latifoglie che spuntano anche dalle acque del lago Cecita, un bacino artificiale creato arginando il flusso del fiume Mucone per produrre energia elettrica e assicurare una buona riserva di acqua per le colture e gli allevamenti di pecore, di vacche podoliche e di capre (più presenti sul versante tirrenico).
I pastori e i casari hanno un ruolo cruciale, insieme agli agricoltori e ai pescatori, nell’economia calabra. Caterina ha scelto i propri fornitori di latticini, carni e salumi dopo lunghe ricerche, per individuare il prodotto più buono ma anche più rispettoso degli animali e dell’ambiente. I mestieri del pastore e del casaro sono cambiati poco con il passare dei secoli (regole sanitarie a parte, ovviamente)
«La Sila è un venerando altopiano granitico con le cime ricoperte di boschi... se non fosse per la mancanza di erica, il viaggiatore potrebbe credere di essere in Iscozia» Da Vecchia Calabria di Norman Douglas, 1915
e conservano ancora qualcosa di arcaico e di magico. Lo racconta con emozione e orgoglio il signor Giuseppe De Tursi che guida la sua azienda agricola nelle
Murge di Strongoli (fondata dal padre Luigi nel 1947) con metodo biologico dal 1994. «Le nostre pecore pascolano in libertà, non conoscono mangimi, neanche bio. Non intervenendo da anni in nessun modo sui campi, niente semine, niente concimi, a poco a poco si è ripristinata la flora che si era persa. Hanno ricominciato a crescere erbe spontanee, piante officinali e il cardo selvatico, che noi usiamo per la caseificazione vegetale e che le pecore brucano per conservarsi in salute». Per questo il latte è eccezionale, così come lo yogurt, che abbiamo mangiato a colazione insieme alle pesche merendelle colte direttamente dagli alberi del frutteto di Caterina. Dopo la visita al caseificio, Giuseppe e la moglie Rosalba ci preparano la colazione del
pastore: in una ciotola versano un po’ di scotta (il siero rimanente dopo la produzione della ricotta), poi aggiungono il pane secco spezzato e un paio di cucchiai di ricotta appena fatta. Lo confesso, ero un po’ dubbiosa. Invece, credetemi, è una delle cose più confortanti e affettuose che abbia mai mangiato. Aveva ragione la mia guida a dire che non potevo non provarla. Risaliamo in auto e raggiungiamo Strongoli, l’antica Petelia, dove sono conservate le basi marmoree con il Testamento del vino di Magno Megonio, un viticoltore del II secolo d. C. La vista, dalla piazza della chiesa di S. Maria delle Grazie o dallo spiazzo sul retro detto Villetta degli Innamorati, toglie il respiro: da una parte la Sila e dall’altra lo Ionio. Soffermandosi a guardare il mare si intuisce la meraviglia delle spiagge bianche, delle scogliere a picco e dei fondali che da qui fino a Praialonga sono riserve naturali protette: Pantano, Gabella Grande, Capo Colonna, Capo Rizzuto. Per una sosta extralusso potete raggiungere, anche in barca a vela, il Praia Art Resort, un luogo incantato in cui il tempo si ferma. Ma oggi siamo «di terra» e Caterina ci porta a mangiare i piatti tipici in una trattoria a conduzione familiare, L’Aquila d’oro, a Cirò. In cucina c’è Elisabetta Cariati, in sala il marito e il figlio. Impossibile citare tutto quello che ho assaggiato, ma assicuro che i baccelli di fave ripassati in padella con pane sbriciolato, aceto e menta, la focaccia con l’olio di fiori di sambuco, la cipollata (uova strapazzate con cipolle stufate, pomodoro e basilico), il sanguinaccio di capretto con peperoni, il fegato di capretto e le polpette di alici sono stati memorabili.
«O Miscello dal dorso ricurvo, Apollo il lungisaettante ti ama e ti darà una stirpe; ma per prima cosa ti ordina questo, di fondare la grande Kroton nei bei campi da arare» Dalla Bibliotheca historica di Diodoro Siculo, I secolo a.C.
Ma il mare?
Finora l’abbiamo visto da (non troppo) lontano, ma lentamente ci avviciniamo fermandoci a visitare la città di Crotone. Miscello di Ripe partì dalla Grecia alla fine dell’VIII secolo a.C. istruito da Apollo che gli indicò precisamente il luogo dove avrebbe dovuto fondare la città. Lui, invece, fu attratto dalla piana della futura Sibari e tornò a Delfi a consultare l’oracolo. Ammonito dalla Pizia per la sua scarsa fiducia nel dio, ripartì e fondò una delle città più famose della Magna Grecia.
Pitagora, filosofo, matematico, scienziato e politico, vi creò la sua Scuola. Qui ebbe i natali Milone, atleta dalle doti così straordinarie da vincere per sette volte le Olimpiadi: non per niente un proverbio antico diceva «più sano di un Crotone». Saliamo su quella che fu l’acropoli attraverso sinuose e colorate viuzze per raggiungere il Museo Archeologico, custode di alcuni pezzi unici al mondo: la Corona d’oro rinvenuta presso il tempio di Hera Lacinia a Capo Colonna e due askoi di bronzo (vasi porta unguenti) a forma di sirena. Scendiamo al porto per incontrare Angelo, colui che procura a Caterina il pesce migliore. Mentre mi racconta dei pesci pettine, così eleganti con le loro striature celesti, gialle e rosa, passa un camion strombazzando. Segnala che è arrivata una paranza con il pescato e invita chi ha un banco o un negozio all’asta del pesce. Partecipiamo anche noi (come uditori). Tutto si svolge in un baleno: il pescatore fissa il prezzo di partenza, il battitore offre e rapidissimi gli interessati rilanciano e acquistano. C’è l’imbarazzo della scelta: gamberi, merluzzetti di taglie diverse, triglie, seppie, polpi, moscardini, sogliole. Certo, dopo tutto questo ammirare, la fame inizia a farsi sentire. Ci aspettano nel ristorante Da Ercole sul lungomare, uno dei più rinomati di tutta la provincia. Calamari arraganati, crostini con sardella (novellame di sardina, messo sotto sale,
poi mescolato con pepe rosso, piccante oppure dolce, e finocchietto selvatico, fino a ottenere una crema (Caterina, per rendere la sua sardella perfettamente liscia, la passa al setaccio), acciughe marinate, spaghetti alla Carbonara Pitagorica, creazione originale del cuoco Ercole Villirillo, e quadaro, una zuppa di pesce povero con pomodoro e peperoncino da mangiare con fette di pane tostato. Il nome viene dai tegami giganteschi che si portavano sulle paranze: i pescatori, dopo aver suddiviso i pesci migliori nelle cassette per la vendita, cuocevano ancora in barca, nel quadaro appunto, quelli di terza scelta da mangiare prima di rientrare in porto. Oggi questa zuppa si è arricchita di pesci nobili, come il San Pietro, lo scorfano, la gallinella, ma la tempra resta quella di una zuppa non troppo raffinata, in cui teste e lische non vengono eliminate per dare maggiore sapore al piatto.
Oasi felice
A metà strada tra Strongoli e il mare si sviluppa l’azienda agricola creata nel 1973 da Roberto Ceraudo (oggi guidata dai tre figli Susy, Giuseppe e Caterina), un casolare del Seicento circondato da ettari di terreno, un luogo di prodigi. Qui i veri padroni sono i ritmi ancestrali, lo scorrere delle stagioni e il rispetto della terra, coltivata con regime biologico da più di trent’anni. Dai vigneti nascono vini affascinanti come il Grayasusi, un rosato da uve gaglioppo, sincero, fruttato e grande amico della tavola, e dagli ulivi ultramillenari un olio gentile e autentico. All’interno delle mura della tenuta, in quello che era un frantoio, c’è il ristorante Dattilo (una stella Michelin dal 2012) guidato con grinta da Caterina. I suoi piatti sono piccoli gioielli, pieni di sapienza (Triglia, pane e arancia), di energia (Podolica, rose, topinambur e caffè) e di amore (Alici, mandorle tostate e Jefferson). Amore palpabile verso la sua famiglia e la sua terra. Chi cena al Dattilo potrà fermarsi anche a dormire in una delle sette stanze appena ristrutturate e potrà fare esperienza dell’accoglienza di casa Ceraudo: senza rendersi conto domanderà di prolungare il soggiorno a tempo indeterminato. Lo dico perché lasciare Dattilo non è stato facile. Ho ripercorso la strada a ritroso fino all’aeroporto di Lamezia Terme con i finestrini dell’auto aperti per riempirmi la testa di Calabria e sono partita con la certezza che tornerò presto per sentire ancora quel profumo che mi farà sempre battere il cuore.